Italianità all’estero: oltre lo stereotipo.

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26.04.2023

Chi siamo, visti da fuori?

Si possono dire tante cose dell’Italia. Ma nessuno nel pieno delle proprie facoltà intellettive sarebbe in grado di confutare l’idea che sia una delle mete turistiche favorite globali, al quinto posto, secondo i dati raccolti dall’Organizzazione mondiale del turismo e compilati dal sito World Population Review.

Difatti, non è difficile recuperare online immagini degli stormi di turisti che affollano note scalinate, piazze e vicoli delle più famose città italiane, l’esatto opposto della calma piatta dovuta alla pandemia di appena due anni fa.

Eppure, se dall’estero hanno tutta questa voglia di visitare le nostre città – che al contrario noi cittadini siamo sempre pronti a criticare duramente – ci sarà un motivo. Ci sono arrivate postume le parole di Giorgio Gaber, quando nel 2003 l’ultimo disco del cantautore cantava “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”. 

Non dev’essere stato semplice riassumere in così poche parole la contraddizione di orgoglio e disfattismo nei confronti del bel paese che ben conosciamo, indistintamente se sia la terra dei nostri natali o che sia diventata casa.

La stessa nazione che, dall’interno, è in grado di esprimere una complessità di macro e micro-culture, all’esterno viene registrata come pizza, pasta, mafia e mandolino. Una lente che si focalizza sulle tradizioni, insomma: l’idea che l’Italia sia conservata in un Tupperware.

Italiani all’estero: “dicono di noi”

Non importa da quale luogo oltralpe o attraverso il mar Mediterraneo, principalmente gli atteggiamenti degli altri paesi sono due: fascinazione o odio. Certo, oggi quest’ultimo è meno diffuso, ma rimasugli dell’antitalianismo, dovuti tra le altre cause alle nostre emigrazioni di massa dei secoli passati, sono duri a morire. 

Un’intera sezione della pagina Wikipedia dedicata al fenomeno raccoglie un quantitativo sorprendentemente alto di termini dispregiativi a noi dedicati: alcuni di questi appellativi possono anche far sorridere, come ad esempio gli abitanti del Belgio e dei Paesi Bassi che hanno apostrofato i nostri connazionali come Italiaantje (“piccolo italiano”) per enfatizzare la differenza d’altezza media tra le nazioni; gli Statunitensi, invece, hanno puntato a canzonare il suono della lingua e dei dialetti italiani Cumpà diventa “Goombah” e Guappo diventa “Wop”. 

Checché se ne dica, oltre a quelle che possono essere state le nostre abitudini e condizioni, parte della responsabilità di questi stereotipi va additata alle rappresentazioni mediatiche che, nel bene o nel male, sono delle letture dell’italianità. Cuochi paffuti e panzuti, latin lovers, persone che nonostante i decibel della propria voce devono gesticolare per rendere a pieno le intenzioni… Insomma, alcune di queste immagini sono difficili da confutare anche per noi.

Ganzo o goffo?

Prendendo due esempi dalle sit-com da Fonzie di Happy Days a Joey di Friends il filo conduttore delle origini italiane di questi personaggi è la contrapposizione ganzo/goffo, l’essere promiscui, in alcuni ambiti non particolarmente svegli o scolarizzati e, anche quando ostili, spinti da un forte codice morale e legame alla famiglia. 

Ma parlando di narrativa, è impossibile non citare uno dei film più influenti degli ultimi decenni: basato sul romanzo di Mario Puzo pubblicato nel 1969, e adattato nel 1972 da Puzo stesso con Francis Ford Coppola per il grande schermo, la trilogia de Il Padrino non è paragonabile ai gangster movies che lo hanno preceduto. C’è la cruda violenza della criminalità organizzata, c’è un bagaglio culturale imprescindibile, c’è la volontà di raccontare la storia di un individuo naturalmente incline alla protezione della sua famiglia, senza glorificarne le scelte. Un dramma che, più che appartenere all’italiano medio, ha le sue origini nell’essere più direttamente italo-americano come i suoi autori, d’altronde. 

“Però sei molto italiano…”

Non solo personaggi di finzione, c’è stato il caso di due format di reality-tv che hanno portato sotto i riflettori altri ruoli, altre rappresentazioni, degni di essere citati per la loro rilevanza o infamia. 

The Apprentice, il programma in cui aspiranti uomini e donne d’affari competono per diventare, appunto, apprendisti di un noto imprenditore. Ruolo ricoperto nella versione italiana dal bilionario Flavio Briatore, mostrato come duro, feroce, di indiscutibile successo. Senza arrivare a dare per veritiera al 100% le narrative spinte da questo genere televisivo, è innegabile la volontà di mostrare l’ingegno e l’iniziativa dei concorrenti in contesti non sempre sotto i riflettori. Campagne pubblicitarie, allestimenti per strutture alberghiere, sfide che fanno risaltare la creatività ed il piglio di alcune delle menti che l’Italia è in grado di plasmare… E la sicurezza di sé che se non mediata può sfociare in presunzione.

Ma anche il caso di Masterchef, il talent culinario originariamente britannico che ha acceso i fornelli italiani dal 2011. Il giudice Joe Bastianich, che pur essendo cresciuto nel Queens, New York, è figlio di immigrati italiani d’Istria. Sebbene la sua pronuncia italiana sia facilmente parodiabile, resta una delle personalità che ha contribuito ulteriormente alla popolarità della italian cuisine. 

Made in Italy, dan dan!

Nonostante tutto, culturalmente parlando, la presenza del marchio italiano ha indiscutibilmente la sua rilevanza a livello mondiale in numerosi campi. Lo stile dell’alta moda italiana non ha eguali, così come eccellenze culinarie (pasta, salumi, vini, ecc.) e d’artigianato. Se la produzione di auto di lusso. In toto, siamo tra i leader mondiali per la produzione e l’esportazione di macchine per l’industria di ogni genere: persino nella produzione di rubinetteria.

Stando ai dati ISTAT relativi al commercio estero, tra i settori che hanno avuto un aumento influente, relativamente al periodo dicembre 2022-febbraio 2023 rispetto al precedente, sono gli articoli farmaceutici, chimico-medicinali e botanici (+51,3%), macchinari e apparecchi precedentemente citati (+12,7%) e prodotti alimentari, bevande e tabacco (+12,7%), coke e prodotti petroliferi raffinati (+29,0%). Su base annua, i paesi che hanno fornito i contributi maggiori all’incremento dell’export nazionale sono: Cina (+131,3%), Turchia (+26,2%), Stati Uniti (+18,2) e Spagna (+12,9%), mentre le esportazioni verso il Giappone sono diminuite del 7,5%.

Tra tutti questi dati, non dimentichiamo maestranze forse più desuete ma tipiche del nostro fugacemente citato artigianato. Spesso sono state le particolarità dei nostri territori che hanno caratterizzato così tanto la nostra manodopera, la reperibilità di alcuni materiali rispetto ad altri a dettare cosa diventa tradizione e “tipico del posto”. Basti pensare ai Marmi di Carrara, estratti dalle cave nelle Alpi Apuane, o la lavorazione dei vetri artistici dell’isola di Murano, nella magica Venezia. Non è poi tanto assurdo che migliaia di persone si riversino nei vicoletti di San Gregorio Armeno per vedere come sono fatti i famosi presepi napoletani o che si accalchino nelle profumate stradine di Amalfi e Sorrento solo alla ricerca degli aromi che più di cinquant’anni fa hanno ispirato Ancel Keys a creare il concetto di dieta mediterranea.

Tutto e il contrario di tutto

Al netto di gaffes internazionali dei nostri governi, anche la reputazione sociopolitica è sempre all’insegna della contraddizione: se da un lato la compagnia Svizzera specializzata nel controllo della qualità dell’aria IQAir, ha dichiarato Milano come terza città più inquinata al mondo da PM2.5 relativamente allo scorso 21 marzo, dall’altro siamo il Paese con più patrimoni mondiali, siti UNESCO, ben 58; ancora, la somma in chilometri di tutte le nostre linee metropolitane è inferiore alle linee presenti nelle singole città di Londra e di Madrid ma abbiamo aziende leader, affermate globalmente, nei settori automotive oltre che moda e cibo; esemplare tra tutte le contraddizioni il costo della vita aumenta mentre in media nostri salari sono comunque più bassi rispetto a Francia e Germania. 

Sarà un’impressione, ma diventa sempre più complesso alzarsi dal letto, guardarsi allo specchio e dire: “L’Italia è il Paese che amo”. Queste parole, togliendole dal contesto originale e l’annesso brivido lungo la schiena, sono sicuramente più sentite dalla viva e vivace mandria di turisti. Ed è vero, arrivano in Italia con lo spirito di una scolaresca in una gita allo zoo, ma l’esperienza italiana darà sempre quella sensazione di vivere una parentesi pittoresca, verace, che in altri paesi difficilmente riusciremmo ad avere. Personalmente, ad una crêpe col Camembert sotto la Tour Eiffel, rispondo picche con pizza con bufala di fronte al Vesuvio. 

Non riposiamo sugli allori

Sarà sempre giusto valorizzare il “bello”, il nostro “bello”, ma non possiamo permetterci di riposare su questi allori: come possiamo noi abitanti permetterci di beneficiare a pieno del territorio se riusciamo a malapena a pagare mutui, affitti, bollette? Il turista in visita non ha davvero modo di registrare questa insoddisfazione, i più abbienti non si pongono quasi il problema. Il paradosso più grande è che stiamo parlando di uno Stato che ci vuole preparati, competenti e in grado di valorizzarlo ciecamente, mentre si occupa di non-problemi come quello di difendere la lingua italiana proponendo multe tra 5.000 e 100.000 euro per l’uso di parole straniere. Lo stesso Belpaese che non ci permette di programmare un futuro, di costruire un progetto di vita in modo adeguato, che ci rende sempre più frettolosi, ansiosi, infelici, poveri.

Diego Nespolino, Officina Civile

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