Il fast fashion e lo spreco
02.05.2023
Bershka, Shein, H&M, Zara. Sono solo alcuni dei marchi di fast fashion più famosi e importanti al mondo. Ognuno di noi, o perlomeno la maggior parte, sente la necessità di rinnovare continuamente il suo armadio, visto che ormai ogni cosa – quindi anche la moda – viaggia a velocità 2.0 nella società di oggi. Ma che impatto ha?
Quanti vestiti buttiamo
Per far capire la mole di sprechi nel settore basterebbero due dati: il primo è quello relativo alla produzione mondiale di vestiti, stimata intorno ai 100 miliardi di capi.
Il secondo è quello relativo a quanti ne buttiamo via, ovvero circa 70 milioni di tonnellate di abiti usati, di cui quasi la metà (48%) ancora perfettamente utilizzabile e che, al contrario, finisce nelle discariche del Sud del mondo.
Questo dato porta a una conclusione naturale: a livello globale ogni secondo sprechiamo tonnellate e tonnellate di vestiti buoni, che potrebbero essere riutilizzati e/o riciclati, venduti o addirittura donati alle persone più in difficoltà. Una sorta di egoismo al quadrato quindi: non solo il poco interesse verso l’assenza di sostenibilità di questo tipo di produzione, ma anche nello smaltimento postumo della stessa.
Il riciclo e la produzione
Ciò che rimane invenduto nei negozi, quantità estremamente più significative rispetto all’avanzo domestico (anche se secondo Greenvector “il 60% dei prodotti acquistati viene buttato nello stesso anno in cui viene comprato”), secondo le politiche vigenti può solo essere venduto agli stockisti o rimandato al magazzino centrale della ditta.
Non restano a disposizione molte opzioni, se non la discarica o l’inceneritore. Stiamo parlando comunque di quantità enormi: solo l’1% dei vestiti e tessuti prodotti annualmente viene riciclato.
Numeri non sostenibili, visto che le emissioni e i consumi per produrre questi capi sono enormi. Ad esempio, per fare un singolo paio degli oltre 2 miliardi di jeans prodotti in un anno si utilizzano più di settemila litri d’acqua. Oppure le emissioni annuali dell’industria tessile, stimate in un miliardo e 200 milioni di tonnellate di anidride carbonica, più dell’intero traffico aereo mondiale.
Il fast fashion e il lavoro
Del fast fashion, in particolare di Shein, avevamo già parlato, approfondendo anche il difficile rapporto con i lavoratori.
Tutta l’industria del fast fashion funziona solo se la produzione e lo smaltimento – quindi le fasi più delicate dell’intero ciclo di vita del prodotto, perlomeno a livello igienico e ambientale – sono effettuati a bassissimo costo, cosa possibile solo nei Paesi meno sviluppati da quel punto di vista: in poche parole nel Sud del mondo.
Tutta la produzione dei marchi di fast fashion non è assolutamente sostenibile: né a livello lavorativo (zero sicurezza e norme igienico-sanitarie inesistenti) né a livello ambientale (consumi eccessivi, emissioni fuori controllo, riciclo inesistente).
Per salvare il pianeta, e la nostra vita, andrebbero prese delle decisioni serie, responsabili e coraggiose proprio su questa filiera.
Riccardo Imperiosi, Direttore Giovane Avanti!
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