I CARUSI di Onofrio Tomaselli

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Una fila di fanciulli emerge dalla porta della zolfara e si dirige lungo un sentiero che porta sulla collina, dove in alto a destra, in un paesaggio lunare, si notano le “torri” della fornace per lo zolfo.

Sono i carusi, “picciriddi” impiegati come operai nelle miniere di zolfo: dovevano essere piccoli di corporatura per inoltrarsi nei cunicoli stretti e bassi della miniera dove, a causa del calore soffocante, dei miasmi e delle esalazioni del minerale, lavoravano seminudi o del tutto nudi come appare nel dipinto.

È il momento dell’uscita dalla miniera di questa torma di innocenti condannati ad un lavoro bestiale (come non pensare alla porta dell’inferno dantesco e agli stessi carusi come ai dannati delle bolge?).

Escono nel tardo pomeriggio, con passo lento e strascicato, il capo e gli occhi rivolti a terra; escono accecati dal buio della miniera nella luce radente, portando sulla schiena i sacchi contenenti il minerale (dai 25 agli 80 kg. a seconda dell’età), curvi sotto il peso, denutriti, sfiniti: uno di loro, a sinistra, giace stremato ormai privo di forze e incapace di reagire al richiamo dell’amico che cammina voltandosi verso di lui.

La storia del dipinto

“I Carusi” è un dipinto del 1905, presentato all’ Expo Internazionale di Milano nel 1906, oggi conservato nella Galleria d’Arte Moderna di Palermo. L’opera fu preceduta da una serie di bozzetti attestanti un attento lavoro di indagine fatto “sul campo” (durante il soggiorno presso il barone La Lumia proprietario di alcune miniere di zolfo) seguendo il principio realista della “verità oggettiva” senza infingimenti ed edulcorazioni a costo di suscitare scandalo.

Qui, l’autore potè fare esperienza diretta delle condizioni di vita e lavoro indicibili dei ragazzi delle miniere, del loro calvario quotidiano: chiusi nel sottosuolo, dovevano muoversi in cunicoli bassi e stretti, in rettilineo e in verticale; dovevano sopportare la  carenza e spesso la privazione dell’acqua e del cibo necessari; vivevano in conzioni di orribile promiscuità, alla mercè delle botte e spesso degli abusi sessuali dei loro aguzzini.

Un dipinto verista

Proprio come nei racconti verghiani (la sorte del caruso nella miniera è narrata, in modo magistrale e indimenticabile, nella novella “Rosso Malpelo”) nessuna “via d’uscita”, nessuna speranza di salvezza si profila per i disgraziati e la stessa violenza alla quale tutti sono quotidianamente sottoposti viene esercitata anche dalle vittime, dai più forti contro i più deboli. Rosso Malpelo si accanisce col bastone contro il suo asino e “bullizza” il piccolo “Ranocchio” suo compagno di sventura fino a quando verrà una morte inevitabile e liberatrice.

Del resto, a renderne ancora più evidente la condizione tragica, il personaggio verghiano, quando si perde per sempre nel labirinto dei cunicoli, afferma che “Sarebbe stato meglio non esser mai nati”.

Come scrisse Gioacchino Guttuso Fasulo, agrimensore, padre del più noto Renato, “il paesaggio montuoso e pieno di luce di una zolfara siciliana è teatro di quello sconcio sociale di cui si sono tanto vanamente occupati gli umanisti odierni, dove giovanissime creature si logorano in un lavoro consumatore della mente e del corpo. Il monito sociale non è mai emerso con tanta ripercussione di pena (…)”.

Il “lavoro consumatore della mente e del corpo” non solo fiaccava questi poveretti: ben presto i loro corpi divenivano sbilenchi, le gambe ad angolo per l’abitudine di camminare portando grandi pesi; le ginocchia gonfie ed ingrossate, la pancia rigonfia (anche a causa della malaria, curata con la somministrazione di infusi di legno cassio e grani di pepe, poiché il chinino non esisteva).

Privi di qualsiasi tipo di educazione, abbandonati all’ istinto, analfabeti, i ragazzi erano soggetti ad ogni violenza fisica e morale.

Tecnica e stile

Dal punto di vista tecnico e stilistico, nella pittura del Tomaselli riscontriamo la tecnica della “macchia”, come si vede dai “passaggi” netti dall’ ombra alla luce nella definizione dei corpi, dalla ricerca cromatica nelle ombreggiature degli indumenti e nelle stesse ombre proiettate. La sua ricerca formale si può inserire nella corrente del Verismo meridionale, lungo l’asse che va dal tardo romanticismo-simbolismo di Domenico  Morelli e Francesco Saverio Altamura.

La sua formazione, “classica” e tradizionale si nutrì anche della cultura letteraria meridionalista del tempo, soprattutto durante il lungo soggiorno napoletano.

L’ arte e la letteratura di tendenza verista e di vocazione umanitaria si fanno, dunque, strumento di impegno morale e civile e in particolare, questo dipinto volle essere, secondo le parole del pittore,  “un grido contro lo sfruttamento minorile nelle zolfare dell’entroterra siciliano” e memoria perenne della strage di ragazzi nella miniera di Gessolungo, nel 1881, quando morirono bruciati vivi 19 carusi tra bambini e adolescenti nell’incendio divampato in alcune gallerie.

Licia Lisei

Storica dell’Arte

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