Dare dignità alla fragilità umana. La straordinaria lezione di Franco Basaglia
26.04.2024
“La forza è ciò che rende chiunque le sia sottomesso una cosa. Quando sia esercitata fino in fondo, essa fa dell’uomo una cosa nel senso più letterale della parola, poiché lo trasforma in un cadavere. C’era qualcuno e un attimo dopo non c’era nessuno”.
Per comprendere la rivoluzione sociale e culturale attuata da Franco Basaglia (11 marzo 1924 – 29 agosto 1980), si può partire da questo pensiero di Simone Weil contenuto nell’opera “L’Iliade o il poema della forza”. Nel microcosmo concentrazionario dei manicomi, Basaglia sostituì la forza delle convinzioni alla forza che schiaccia e annienta l’uomo, restituendo dignità alla fragilità e usando quest’ultima come chiave di tutto, per rimettere al centro le vite degli ultimi ed immergersi nella complessità della realtà.
La sua prima volta in manicomio fu a Gorizia, il 16 novembre 1961, quando ad appena 37 anni ne assunse la direzione; nel mettervi piede fu colpito dall’assenza.
In quel luogo di orrore, che tanto gli ricordava l’esperienza del carcere vissuta da giovane partigiano nel 1944, vide davanti a sé centinaia di corpi ma nessuna persona: gli individui erano ridotti a oggetto, non c’era altro che la loro malattia.
«Qui ci sono 600 internati ma non c’è più nessuno», avrebbe concluso, vergognandosi e coltivando per un attimo la tentazione di andare via. Invece restò e decise di non essere complice nel meccanismo di quotidiana umiliazione degli esseri umani, manifestando questa sua volontà in una frase, pronunciata in veneziano quando gli misero davanti il registro delle contenzioni con l’elenco dei ricoverati che la notte precedente erano stati legati al letto: “e mi no firmo”.
La trasformazione di Franco Basaglia iniziò esattamente da questo gesto di rifiuto, a cui ne seguirono molti altri mai visti in un manicomio: persone slegate, corpi rivestiti, ascolto, attenzione, confronto, umanizzazione.
Una rivoluzione, quella innescata dallo psichiatra veneziano, che non ha riguardato solo la medicina, ma anche la società, la politica, la cultura; il movimento basagliano, mettendo in discussione i manicomi, ha dimostrato che un altro modo di prendersi cura del prossimo è possibile e che la società, anziché erigere muri per contenere il disagio, la disabilità, la diversità, può farsene carico con un atto di responsabilità che sappia includere al suo interno anche il rischio della libertà dell’altro.
Un ruolo fondamentale per raccontare al mondo l’esperienza di quanto stava accadendo a Gorizia, e poi sarebbe avvenuto con risultati ancora più incisivi a Trieste, lo ebbe Franca Ongaro, la donna che Basaglia aveva sposato nel 1953 e che abbracciando con lui la causa della de-istituzionalizzazione mise a disposizione la sua intelligenza e le sue capacità di scrittura per dare una sistemazione teorica alle infinite discussioni dalle quali scaturiva il pensiero eversivo che avrebbe portato alla distruzione dei manicomi.
Franco Basaglia amava dire: “io curo le persone, non le malattie”, condensando in questo concetto l’essenza del suo umanesimo radicale che lo avrebbe spinto a considerare il malato come “un essere nel mondo” e la sua malattia come la parte più contraddittoria di questo essere ma mai sostituibile con la sua identità. Si trattava di capire che il disagio mentale esisteva e rappresentava uno dei tanti modi di svilupparsi dell’esistenza; in questa consapevolezza, la sofferenza non poteva essere negata o nascosta, ma bisognava trovare un modo di entrare in contatto con essa per rimettere nel mondo i pazienti e garantire loro gli stessi diritti alla cura di cui erano titolari tutti gli altri.
Lo strappo culturale, nella temperie delle trasformazioni e conquiste che sferzarono la società in quegli anni, fu proprio questo: “i matti” non facevano parte di una sottospecie umana, erano semmai più fragili degli altri e per questo meritevoli di attenzione e amore per poter intraprendere la strada della guarigione.
Basaglia riuscì a realizzare il suo progetto di smantellamento del manicomio non a Gorizia ma a Trieste, dove l’utopia dell’impossibile divenne una realtà concreta nel giro di pochi anni con la creazione, già a partire dal 1973, di quella rete di supporti, servizi, attività, operatori che avrebbero consentito al territorio di sostituirsi progressivamente al manicomio nell’assistenza psichiatrica fino a giungere alla definitiva chiusura dell’ospedale nel 1980, sancita con una Delibera della Giunta provinciale dell’11 luglio 1980. Due anni prima, il Parlamento aveva approvato, il 13 maggio 1978, la legge 180 che restituiva dignità e diritti ai malati psichiatrici, stabilendo contemporaneamente che i manicomi non dovessero più esistere su tutto il territorio nazionale.
Appena un mese e mezzo dopo la chiusura del manicomio di Trieste, il 29 agosto 1980, Franco Basaglia morì prematuramente a seguito di un tumore cerebrale.
Della sua impresa umana e intellettuale restano ancora oggi tante eredità: tra tutte, che è fondamentale non cedere al pessimismo della ragione ma mettere in atto l’ottimismo della pratica, mantenendo un pensiero critico che tenga conto di tutte le contraddizioni dell’esistenza, per far sì che attraverso la responsabilità e il lavoro di ognuno l’impossibile divenga possibile.
Annacarla Valeriano, Saggista
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