Great Resignation, lasciare il lavoro e cambiare vita.

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13.01.2022

“Mi dimetto, cambio vita!”

Si chiama Great Resignation, una voglia, un desiderio interiore di diventare padroni di sé stessi e riappropriarsi del proprio futuro. L’intento è il guadagno autonomo e la gestione personale del proprio tempo.

È un fenomeno che viene dagli Stati Uniti, dove, secondo il Bureau of Labor Statistics, ben 4 milioni di lavoratori dipendenti americani, nel luglio 2021 hanno deciso di lasciare il lavoro.

Tra le cause della Great Resignation, molte psicologiche: burnout, stress lavorativo, nessuna disconnessione, ma anche un diverso approccio alla vita in generale.

Il lockdown e lo smart working del periodo più nero della pandemia, il 2020, hanno portato a uno stravolgimento nell’approccio al lavoro.

Da un lato si parla sempre più di riduzione dell’orario di lavoro a parità di retribuzione. Dall’altro, però, sono sempre di più le persone attratte dall’indipendenza lavorativa.

Un contesto in cui l’idea delle dimissioni non è più catastrofica o comunque legata a progetti di lavoro autonomo concreto e pre-esistenti.

Anche in Italia si è registrata una tendenza simile, anche se più limitata nei numeri e con diverse variabili sociali.

Nel nostro Paese, solo per citare un dato, il numero delle partite IVA aperte nel secondo trimestre del 2021 è aumentato del 54,1%, 147.153 in valori assoluti. Sono numeri del Mef. Il Ministero del Lavoro, invece, ci dice che le dimissioni volontarie nel secondo semestre del 2021 sono state 484mila, +85% rispetto al 2020.

Ovviamente, questi numeri non sono tutti conseguenza di un diverso approccio al lavoro. Tante sono i fattori che incidono su questa scelta. In primis la necessità di conciliare vita e lavoro familiare che ha portato più le donne a sacrificare il proprio posto di lavoro.

Non è però di questo vero e proprio sacrificio che parliamo, quanto di una scelta ragionata. Cambiare l’idea del lavoro, fuggendo dal concetto di lavoro dipendente.

Negli Stati Uniti il fenomeno della Great Resignation, come dicevamo, è più evidente.

Sarà che la pandemia ha dato alle famiglie la possibilità di esplorare un tipo di relazione che si era un po’ persa nel tempo. O, forse, secondo alcuni esperti americani, l’idea che tutto possa crollare in un attimo ha dato il via a una diversa idea di vita rendendo più accettabile il rischio del fallimento.

Incide, comunque, il fatto che il work life balance, la conciliazione, cioè dei tempi di vita e lavoro, ha iniziato a suscitare un interesse maggiore.

Abbiamo già parlato in questo post dell’esigenza di bilanciare il tempo di lavoro e quello dedicato alla famiglia. Questi nuovi fenomeni, che vengono registrati anche oltre oceano, devono far riflettere sui cambiamenti di atteggiamento e comportamento che si susseguono alle grandi trasformazioni sociali, dovuti a eventi inattesi come, appunto, la pandemia.

È giusto, quindi, che tutti gli attori sociali inizino a interrogarsi sulle diverse modalità di lavoro che possono essere attuate. Così come anche sarebbe utile provare a considerare che ciò che rende realmente appetibile un posto di lavoro non è più il semplice rapporto orario/salario. Fattori come la flessibilità, oraria, dei luoghi di lavoro, la possibilità di poter seguire corsi di formazione e specializzazione, i percorsi di carriera reali, i rapporti e le relazioni con colleghi e leadership, le opportunità di crescita personali.

Insomma il benessere lavorativo  inizia a essere un tema non irrilevante da affrontare per un futuro non poi così lontano.

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