Disuguaglianza, democrazia e crescita: l’economia cambia rotta.

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18.01.2024

Il 46 % della ricchezza totale netta nel nostro Paese è posseduto solo dal 5% delle famiglie. Un pattern che conosciamo fin troppo bene. Pochi che hanno molto e molti che hanno poco. Lo ha rivelato la Banca d’Italia, analizzando The Survey on Household Income and Wealth (SHIW). Un report periodicamente redatto dalla BCE e denso di dati interessanti. 

Tanto è vero che, oltre a una disuguale distribuzione della ricchezza, lo studio segnala la disparità nella composizione del portafoglio. Le famiglie meno abbienti possiedono principalmente beni rifugio, di prima necessità, abitazioni e depositi. Quelle più benestanti, invece, possono permettersi in aggiunta profumate quote d’azioni, partecipazioni e attività reali destinate alla produzione. Sono beni capitali che costituiscono quasi un terzo della loro ricchezza, mentre un quinto è formato da fondi comuni di investimento e polizze assicurative.

Poi, sempre secondo il report della Banca d’Italia, “i principali indici di disuguaglianza sono rimasti sostanzialmente stabili tra il 2017 e il 2022, dopo essere aumentati tra il 2010 e il 2016”. Tradotto: le iniquità nel nostro Paese non crescono, ma neanche diminuiscono.

Disuguaglianza: un problema mondiale

La forbice sociale rimane ampia e le cause non sono difficili da individuare. Secondo gli analisti la ricchezza delle famiglie italiane non si è ancora ripresa dallo tsunami economico scaturito dalla crisi del debito sovrano. Di certo, non sono state d’aiuto le ricadute economiche della pandemia e della crisi ucraina, all’origine dell’inflazione e della stretta creditizia decisa dalla BCE.

Ad ogni modo, lo spettro della disuguaglianza non minaccia solo l’Italia. Tocca partner europei come Francia e Germania, e altri paesi nel mondo. Non a caso, il Global Wealth Report 2023, ha rilevato che nella nazione più ricca del pianeta, gli Stati Uniti, l’1% delle famiglie detiene ben il 31,7% della ricchezza dell’intero Paese. Anche per la seconda classificata, la Cina, il divario tra ricchi e poveri negli ultimi anni non ha fatto altro che aumentare. 

La svolta dell’economia: dalla crescita del PIL alla sua distribuzione

Dati non di poco conto, oggi al centro di innovative ricerche sul rapporto tra disuguaglianza, democrazie e produttività. Innovative perché per lungo tempo l’obiettivo della teoria economica è stato solo quello della crescita. Anzi una più equa distribuzione del reddito tra gli individui era considerata dannosa. Si partiva dal presupposto che intaccare il capitale dei ricchi significasse limitare la loro capacità di risparmio e, dunque, di investimento, frenando la produzione di altra ricchezza. La priorità, quindi, era allargare la torta, nella convinzione che a tutti sarebbero state distribuite fette più grandi. Chiamata Trickle down economy o economia del gocciolamento, è stata ben presto smentita. Infatti, oggi, proprio nei paesi più sviluppati la concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi è parallela alla stagnazione o riduzione dei salari, alla disoccupazione e all’aumento della povertà.

In altre parole, si è osservato che una disuguaglianza estrema non solo non è funzionale alla crescita, ma la paralizza. Se la distribuzione del reddito è sbilanciata a favore della quota profitti, a danno della quota del reddito da lavoro, la produttività diminuisce e il sistema economico rischia il collasso. Ridotti i consumi, le imprese avranno aspettative al ribasso sugli investimenti reali e punteranno alla speculazione finanziaria. La riprova ce la dà la Storia perché proprio un meccanismo simile ha causato il progressivo rallentamento della crescita degli anni ’80.

Di fronte a queste evidenze, la teoria economica ha dovuto mettere a fuoco nuove prospettive di analisi, aprendo il dibattito sulla distribuzione del reddito personale e interrogandosi sulle sue implicazioni politiche.

Disparità e democrazia: un binomio complesso

Così, le funzioni di produzione hanno finito per intersecarsi con importanti riflessioni sul rapporto tra disuguaglianza e democrazia.  In tal senso, per comprendere il possibile impatto delle disparità economiche sulla tenuta di un sistema democratico, è diventato fondamentale individuarne i requisiti formali. Un’ambizione speculativa tutt’altro che scontata.

Le elezioni a suffragio universale, in fondo, non bastano per sostanziare il concetto di Democrazia, specie nelle società capitalistiche. Parliamo di strutture istituzionali ed economiche complesse dove interagiscono diversi soggetti (associazioni, partiti) ed enti (funzionali, territoriali). Per questo Robert Alan Dahl, uno dei massimi studiosi del regime democratico, usa il termine di poliarchia o democrazia poliarchica: un ordine sociale caratterizzato sia dall’elezione dei funzionari in modo equo, libero e ricorrente, sia dalla libertà di espressione e associazione, dalla disponibilità di diverse fonti di informazione e dalla cittadinanza inclusiva. Pilastri portanti l’uguaglianza politica che recenti studi dimostrano non è indipendente dall’andamento della forbice sociale.

Se parte della popolazione soffre un deficit nel godimento dei diritti sociali ed è esclusa dal mercato del lavoro, ne risente la sua capacità di influenzare i processi decisionali. In primis, perché, banalmente, sono i ricchi che hanno a disposizione più strumenti, legali e non, come lobbing e corruzione, per salvaguardare i propri interessi. Perciò, il potere politico de iure può essere inficiato da quello de facto delle elites economiche. Lo conferma la ricerca di Larry Bartels che ha registrato dati in linea con questa ipotesi. Ad esempio, ha provato che le persone appartenenti al 30% della popolazione più basso nella scala di distribuzione del reddito non hanno alcun potere di influenza. Allo stesso modo, è emerso che i leader politici sembrano assecondare maggiormente le istanze dei cittadini con reddito medio alto.

Il risultato è un’inferiore reattività delle istituzioni alla domanda politica dei ceti meno abbienti, per nulla positiva per i regimi democratici. In assenza di risposte efficaci al disagio sociale, la cittadinanza in stato di bisogno può allontanarsi dalla vita politica e nutrire sentimenti di sfiducia o opposizione. Uno scollamento potenzialmente distruttivo che spesso degenera in varie forme di fenomeni anti-sistema, dall’astensionismo alle rivolte. 

Disuguaglianza e democrazia: istruzione e mobilità sociale.

Altro fattore di rischio per un effettivo esercizio della sovranità popolare è il cosiddetto costo sociale delle disuguaglianze. Maggiore è la disparità di reddito, minori sono l’accesso all’istruzione o la mobilità sociale. E, senza istruzione e mobilità, il divario si aggrava. Un circolo vizioso difficile da interrompere. Quando il tasso di disuguaglianza è elevato, la formazione di alto profilo è un privilegio di pochi. Gli stessi che tendono a sfruttare la propria influenza sul potere politico per impedire finanziamenti alla scuola pubblica. Così il basso livello di istruzione dei meno abbienti li rende facilmente manipolabili e meno interessati al funzionamento delle istituzioni. 

Lo stesso vale per la mobilità sociale. All’aumentare del tasso di disuguaglianza, diminuiscono sensibilmente le opportunità di ottenere un tenore di vita migliore. La persistenza intergenerazionale degli svantaggi sociali rafforza quindi il potere politico delle élites economiche, sempre a discapito del sistema democratico.

Il confine tra plutocrazia e oligarchia è sottile, e non va oltrepassato. Al contrario, è vitale far dialogare la ricerca statistica con la programmazione politica. Il monitoraggio delle dinamiche di distribuzione del reddito deve coesistere con azioni politico-economiche che ne correggano le storture. Il libero mercato non è il gioco perfetto dove la mano invisibile dispensa equamente premi e ricompense. È indispensabile che la rappresentanza democratica svolga il proprio ruolo di livello sociale, per ridurre al minimo il divario tra uguaglianza politica ed economica, a protezione della democrazia stessa.

 

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