Salari e Top Manager

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29.06.2023

Avete presente Adriano Olivetti? Forse una delle figure più edificanti del capitalismo italiano e forse per questo una della più trascurate.

Ebbene, una sua frase celebre più o meno suona così: “Nessun dirigente, neppure il più alto in grado, deve guadagnare più di 10 volte l’ammontare del salario più basso”.

Ora, quando Olivetti disse questa frase c’era il grande boom economico italiano, alla Fiat l’allora amministratore delegato – Vittorio Valletta – portava a casa circa 12 volte il salario dell’operaio metalmeccanico e non viveva sotto i ponti per questo motivo.

Olivetti, quindi, non parlava a casaccio ma aveva bene in mente un rapporto di equilibrio che stava dando la spinta all’Italia per diventare una potenza economica.

L’evoluzione del rapporto tra i top manager e i salari di base

Un’idea che reggeva gran parte delle economie occidentali: ancora nel 1980 il rapporto emolumenti top manager/salari di base era appena di 45 a 1 e già poteva sembrare cosa non giusta, visto che a metà del ‘900 il rapporto era di 4 a 1 e – per non lasciare solo il nostro Olivetti – un banchiere come Morgan (proprio quello della banca d’affari Morgan Stanley) usava ripetere che superare un rapporto di 10 a 1 voleva dire appropriarsi di uno stipendio “immorale e irrazionale”.

Non potevano neanche immaginare che nel giro di pochissimi decenni il rapporto tra stipendi top e quelli dei lavoratori sarebbe schizzato a oltre 500 a 1.

Cosa è successo nel frattempo? Il passaggio dell’economia occidentale alla fortissima finanziarizzazione ha portato con sé un epocale cambiamento culturale.

La redistribuzione dei redditi come progresso dell’economia

Morgan, Olivetti, forse anche Valletta (che tutto era tranne che un simpatico signore con gli operai Fiat), avevano nella loro visione del mondo l’importanza chiave e vitale della redistribuzione dei redditi come progresso dell’economia.

Una visione che oggi viene chiamata “fordista” per cui più risorse sono distribuite e più margini ci sono per le fasce più deboli di fare acquisti, investire sulla casa, sul miglioramento di sé stessi e dell’educazione dei figli. Alimentando così un circolo virtuoso che, era sotto i loro occhi, stava permettendo un’incredibile espansione dell’economia nazionale.

La concentrazione enorme della ricchezza – pensavano – avrebbe bloccato non solo la crescita ma anche la classe media che ha un ruolo chiave nell’ascensore sociale.

Il ruolo dello Stato sociale

E capendo anche un’altra cosa: nei meccanismi di redistribuzione della ricchezza senza dubbio lo stato sociale (sanità, pensioni, istruzione) ha una funzione vitale.

Ma il primo motore della redistribuzione sono i salari, da lì parte tutto. Questo patto sociale in tutto l’Occidente come sappiamo è saltato, mentre una oligarchia manageriale ha preso il potere.

Un esempio? Mister Dave Komansky, presidente della banca Merril Lynch nel 2002. Un piccolo azionista in assemblea si alza e chiede perché il presidente abbia incassato 15 milioni di dollari di stipendio (e così anche il suo amministratore delegato). Risposta: “Abbiamo dovuto tagliare oltre 20mila posti di lavoro in due anni. Tagli di questa portata hanno richiesto enorme competenza del management”. Non era una battuta di spirito, anzi, era proprio convinto.

Gli scaglioni di reddito

Ma badate, tutto asseconda questa direzione, lo Stato in prima fila. Nel 1973 viene istituita la riforma del sistema tributario italiano, c’erano qualcosa come 32 scaglioni di reddito. Sapete oggi quanti scaglioni ci sono? Solo 4 con un altro particolare. Nel ’73 lo scaglione più basso pagava il 10% di tasse, chi superava l’ultimo scaglione il 72% , oggi lo scaglione più basso è del 23% (più del doppio per i più poveri) e del 43% per i più ricchi, quasi la metà.

Eppure, nel 1973 ricchi e ricchissimi non mancavano, come non mancavano yacht, aerei privati e ville da re. E oggi le rendite da capitale sono tassate comunque al 26% e indovinate da dove arrivano? Dai famosi utili garantiti dalla élite manageriale, come nel settore bancario sanno benissimo. Non a caso anche quando i manager fanno disastri i super compensi sono sempre garantiti, tanto se li assegnano da soli mentre Cda e azionisti sono accondiscendenti (tra gli azionisti ci sono anche i fondi pensione dei lavoratori, attenti).

E per finire, torniamo a Valletta e il suo stipendio in Fiat che era pari a 12 volte quello di un operaio. Oggi Carlos Tavares, alla guida di Stellantis (e quindi anche di Fiat) porta a casa 19,1 milioni di euro, qualcosa come 758 volte lo stipendio medio di un operaio in catena di montaggio. E nel frattempo i salari reali italiani sono crollati del 12% rispetto al 2008. A confronto Komansky era un buon Samaritano.

Francesco Leitner, Uil Milano e Lombardia

 

 

 

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