Caporalato digitale: una app e un algoritmo come datore di lavoro

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02.02.2022

Per caporalato si intende una forma illegale di reclutamento e organizzazione della mano d’opera, (in passato specialmente in relazione all’agricoltura), attraverso intermediari (caporali) che assumono, per conto dell’imprenditore e percependo una tangente, lavoratori occasionali, al di fuori dei normali canali di collocamento e senza rispettare le tutele per i lavoratori e le tariffe contrattuali sui minimi salariali.

Abbiamo fatto questa premessa, perché l’economia digitale, implementata al suo massimo ai tempi del Covid, ha prodotto gravi effetti distorsivi sul mercato del lavoro e ha dato vita a un fenomeno che possiamo definire “caporalato digitale”. Dove caporali e datori di lavoro sono diventati molto spesso delle App, con cui il lavoratore non ha modo di interfacciarsi per veder riconosciuti i propri Diritti. Dove la selezione del lavoratore viene fatta da degli algoritmi, perdendo qualunque forma di equità e solidalità.

Abbiamo spesso sentito parlare di caporalato digitale in relazione ai Riders. Infatti, l’algoritmo alla base delle app di food delivery è pensato per trasformare il lavoro in un gioco crudele che “premia” i lavoratori vulnerabili e bisognosi. Rifiuti una consegna, scendi di classifica e rischi di non lavorare più. Dunque, a qualunque ora del giorno e della notte devi correre per pochi euro. Così un “lavoretto per studenti” è diventato una condanna fissa degli stranieri disperati. (Sul tema consigliamo di vedere il film di Pif “E noi come s*** rimanemmo a guardare” e di leggere il nostro articolo)

Tuttavia, il caporalato digitale non riguarda solo rider e fattorini, che rappresentano solo la metà di questo nuovo universo, con una quota rispettivamente del 36,2 per cento e del 14 per cento. Il resto dei “platform worker” svolge incarichi online che vanno dalle traduzioni, alla stesura di testi, fino alla programmazione di software, alla realizzazione di siti web e così via. Oltre il 31 per cento di questi nuovi lavoratori non ha un contratto scritto e solo l’11 per cento ha un contratto di lavoro dipendente.

Si tratta, dunque, di un lavoro povero, fragile, che inoltre non permette ai giovani di costruire un progetto di vita stabile, questione di primaria rilevanza nazionale, se pensiamo alla continua crescita del numero dei giovani che non studiano e non lavorano per sfiducia nel futuro (Ne abbiamo parlato qui).

Già, perché per lo più viviamo in un sistema economico (gig economy) che non si basa su un “posto fisso” con un contratto ben delineato, ma su un lavoro a chiamata, estremamente facilitato dalla digitalizzazione del mercato del lavoro. Dunque, quella del platform worker diventa spesso un’altra presunta attività autonoma e indipendente senza tutele.

Infatti, grandi aziende multinazionali e applicazioni per servizi di consegna o trasporto utilizzano frequentemente manodopera proveniente da società di servizi terze, creando una situazione in cui il pagamento a cottimo, i contratti a breve termine, gli orari flessibili e la mancanza di ammortizzatori sociali sono solo alcuni dei segni distintivi delle nuove forme di lavoro interinale legate al mondo digitale.

Contrastare il fenomeno del «caporalato digitale», a partire da una definizione delle tutele e dei diritti dei lavoratori che prescinda dalla forma d’impiego e dal tipo di contratto in cui sono inquadrati deve essere una priorità.

I platform worker dovrebbero essere riclassificati come lavoratori subordinati, usufruendo così di alcuni diritti fondamentali (tra cui salario minimo, orario di lavoro, sicurezza e salute sul lavoro, forme di assicurazione e protezione sociale) finora non contemplati.

L’emergenza della pandemia ha messo troppo in ombra il necessario dibattito sui rischi di una tecnologia che dimentica la centralità della persona. Il lavoro in nero e quello fittizio sono due facce della stessa medaglia.

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