Smart working:“lo vorrei, ma non posso!”
15.04.2024
Il lavoro da remoto, “agile” o “smart” continua ad essere considerato una concessione anziché uno strumento di lavoro, che in pandemia garantì tanti servizi, mostrando di essere efficace. Ma efficace per cosa?
Dal punto di vista del sindacato, lo smart working consente alle persone di recuperare tempo e qualità di vita, senza incidere sulla qualità della prestazione.
Ci sono lavori che possono essere agevolmente svolti dalla propria abitazione, senza alcuna flessione quantitativa e qualitativa della prestazione, anzi migliorandola in quanto si risparmiano ore di pendolarismo e di stress, tempo che aiuta anche una migliore gestione del bilanciamento tra tempi di vita e lavoro. Per questo si pensa che lo smart working sia una modalità di lavoro che può andare incontro alle esigenze delle donne, visti i loro carichi familiari. Da tempo, però, anche gli uomini lo rivendicano! Ma chi?
Perché lo smart working è utile
Ci sono persone con problematiche varie, per le quali le condizioni di vita e di salute rendono difficile la prestazione lavorativa quotidiana nei tempi e coi modi attualmente in vigore, soprattutto nelle città così come sono oggi. Ci sono famiglie che coraggiosamente hanno scelto di crescere, diventando genitori, e che si scontrano con servizi non accessibili e urgenze da affrontare. Ci sono situazioni in cui è necessario barcamenarsi tra figli piccoli e/o genitori anziani. In tutte queste situazioni lo smart working aiuta a recuperare tempo prezioso. E ciò vale sia per uomini che per le donne.
Tuttavia, siamo sempre all’anno zero”. Infatti, passata la pandemia, ora il ricorso allo smart working viene ostacolato, perché si torna al vecchio concetto “se non ti vedo farlo, vuol dire che non lavori”; ostacolando così quel lavoro da remoto che in altri Paesi ha consentito ad aziende lungimiranti di ridurre le spese di gestione e consumi attraverso il co-working e i giorni alterni negli uffici.
Il punto di vista (retrogrado) datoriale
Dal punto di vista datoriale, purtroppo, esistono ancora mentalità retrograde: come quella secondo cui l’occhio del padrone ingrassa il cavallo, ovvero “non mi fido se non ti vedo”, a prescindere dal fatto se il lavoro viene comunque svolto.
Sotto la giacca nuova c’è ancora la mentalità dello sfruttamento: chi lavora non deve mai avere tempo vuoto, che importa, poi, se la stanchezza può portare ad incidenti!
Esiste una giusta via. Intanto, lo smart working non può e non deve essere un fine, ma uno strumento di lavoro. Lavorare in questa modalità non è da “serie b”: non deve, infatti, comportare discriminazione nell’accesso a benefici, a promozioni economiche o di carriera. Chi lavora in smart working – per scelta o perché gli viene imposto per risparmiare sui costi – non può essere discriminato o sentirsi isolato dal resto della struttura operativa, staccato da colleghi e colleghe con cui finisce con il non condividere più granché.
Lo smart working deve interessare solo una parte della vita lavorativa, o una parte dell’orario settimanale: i figli crescono, col tempo la fase più caotica della vita lascia il passo ad un ritmo meno complicato. Per questo va ribadito che lo smart working non può essere e non può diventare obbligatorio per chi non lo desidera. Deve restare un utile supporto in situazioni particolari, per venire incontro alla persona, senza ledere interessi aziendali e viceversa. È e deve essere visto come uno strumento che può soddisfare le esigenze della struttura in cui si lavora, andando nello stesso tempo incontro alle necessità di chi lavora. Nel terzo millennio lo smart working può essere positivo per tutte le parti in causa: basta sapersi organizzare!
Un vero imprenditore si vede anche da qui….
Coordinamento Pari Opportunità
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