OMOSESSUALITÀ, TRANSESSUALITÀ, FLUIDITÀ: LA GOFFAGGINE DELL’ITALIA TRA MODERNITÀ E TRADIZIONE 

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01.03.2023

Di “teoria del gender” o “ideologia gender”, termini coniati dai conservatori già negli anni ’90, si è iniziato a parlare diffusamente, almeno in Italia, solo nel 2016, in occasione della discussione parlamentare sulla legge Cirinnà. L’idea è che la sinistra, i movimenti per i diritti lgbtqi+ e quelli femministi, servendosi degli studi di genere e orientando il dibattito pubblico, stiano propagandando il superamento dei ruoli sociali dell’uomo e della donna, l’omosessualità, la transessualità e la fluidità per sovvertire l’ordine naturale. Nel mondo e in Italia, nasce da qui l’opposizione della destra radicale a qualsiasi forma di riconoscimento pubblico, sociale e politico delle istanze delle realtà progressiste.  

Nonostante le resistenze della destra, è indubbio che i temi della sessualità, dell’identità e del genere si stiano affermando con sempre maggiore chiarezza nella società e nelle nuove generazioni. Questi progressi sono anche o, forse, soprattutto il risultato dell’evoluzione della ricerca medica, in particolare di quella psichiatrica, antropologica e sociologica che ha inevitabilmente influenzato tutto il resto. Per dirne una, la decisione dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) del 17 maggio 1990  di cancellare l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali diede un impulso fortissimo alle rivendicazioni di quegli anni e contribuì ad importanti conquiste politiche. Vent’otto anni dopo, nel 2018, l’OMS ha smesso di considerare malattia mentale anche la transessualità, spiegando che “mantenerla in questa categoria avrebbe continuato ad alimentare i pregiudizi che gravano sulle persone transgender”.

La comunità scientifica è, ormai, concorde anche su tutta una serie di definizioni, sulle quali è bene fare chiarezza perché spesso oggetto di dibattiti e disinformazione. I termini “sesso”, “genere” e identità” hanno iniziato ad assumere sfumature di significato diverse a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta. “Sesso” indicava una serie di qualità della persona, sia fisiche che comportamentali. Al contrario, oggi, il “sesso” ne riguarda solo l’anatomia. Nel caso di “genere” la questione è diversa e più complessa: se ci si riferisce alla percezione che si ha di sé stessi e del proprio genere di appartenenza, che non dipende esclusivamente dal sesso biologico, si parla di “identità di genere”; per “ruolo di genere” si intende la percezione che gli altri hanno di noi stessi in base a quelle norme comportamentali culturalmente associate all’essere maschio o femmina. Nelle persone transgender, la cui condizione è definita “disforia di genere”, l’identità di genere è in contrasto con il sesso biologico e con il ruolo di genere a esso attribuito. 

Malgrado l’evidente complessità dell’argomento e le resistenze della politica, stretta tra una destra che si oppone e una sinistra timidissima, va riconosciuto alle generazioni più giovani, la Gen Z, in particolare, il merito di aver normalizzato una serie di tematiche, spogliandole da quelle sovrastrutture ideologiche che ancora ne impediscono la piena accettazione. Le battaglie del passato hanno certamente aperto la strada, ma l’accelerazione a cui si sta assistendo negli ultimi anni non ha precedenti. Il risultato è che c’è una parte di Paese che guarda al sesso e all’identità con occhio pratico, mentre la politica discute e si spacca.

L’associazione Genderlens, in collaborazione con Agedo Nazionale, monitora gli istituti di ogni ordine e grado che adottano la “carriera alias” nei propri regolamenti. Se ne sente parlare sempre più spesso, ma può essere difficile capirne il significato: per “carriera alias” si intende la possibilità, riconosciuta da alcune scuole e università, ma senza valore legale, di adottare un nome diverso da quello anagrafico. È una risposta temporanea alle esigenze degli studenti transgender per dare loro la possibilità di vedersi riconosciuta la propria identità di genere. Il nome scelto può così comparire nel libretto, nel registro scolastico, ma non nell’attestato di laurea. Stando ai dati raccolti, limitando lo sguardo alle regioni più popolose, gli istituti che permettono l’adozione della “carriera alias” sono 35 nel Lazio, 21 in Lombardia e 12 in Campania. Numeri ancora esigui, ma che testimoniano un’attenzione sempre maggiore. A Milano, per dirne un’altra, il Liceo artistico di Brera ha introdotto anche i bagni neutri (o no gender). La preside dell’istituto, Emilia Ametrano, ha spiegato di averlo fatto per tutelare gli studenti transgender: “Abbiamo preso atto della realtà che c’è in questa scuola, qui di ragazzi in transizione sessuale ce ne sono tanti”. La transizione, come la preside sembra sapere, può essere un momento di estrema difficoltà, soprattutto se c’è da fare i conti anche con l’odio transfobico. I dati diffusi dall’Acet – Associazione per la cultura e l’etica transgenere – ci dicono che, dal 2008 a oggi, cinque mila persone transgender sono morte per cause non naturali, da ricondurre alla violenza transfobica. Bassissima è l’età medie delle vittime, solo 27 anni. I numeri sono ancora più allarmanti se si considera che questo tipo di indagini possono tenere conto solo dei casi verificabili su internet e, quindi, sono per natura incomplete. In Europa l’Italia è il paese più pericoloso: 3 sono le violenze denunciate in Germania negli ultimi 14 anni, 45 nel nostro Paese. 

Le diverse fotografie dell’Italia ci restituiscono ancora una volta l’immagine di una nazione complessa e lo abbiamo visto anche con una delle diverse polemiche che ha innescato Sanremo, ovvero, quella generata dalla presenza di artisti omosessuali o fortemente trasgressivi, fino ad arrivare al polverone alzatosi per un bacio tra Fedez e Rosa Chemical.  Insomma, quale immagine più autentica e vera se non quella che Sanremo dà ogni volta dell’Italia come quella di un Paese goffo che vorrebbe essere al passo coi tempi, ma che allo stesso tempo è fieramente ancorato alla “tradizione”.

Manuel Amodei e Mariachiara Manfredi – Officina Civile 

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