Formazione e progresso sociale. I gravi ritardi del nostro Paese
14.05.2024
Negli scorsi giorni l’Istat ha pubblicato il rapporto sulla formazione continua rispetto al 2022. Spoiler: non ci sono buone notizie, come del resto molto spesso quando si parla di istruzione e formazione nel nostro Paese.
Infatti, ai già nefasti dati sul numero di laureati e sull’alfabetizzazione – che ci pongono sempre agli ultimi posti nelle classifiche europee – si aggiungono quelli appena pubblicati dall’Istat. Nel 2022 addirittura un giovane tra i 18 e i 25 anni su tre (il 31%) non ha partecipato a corsi di formazione, contro una media europea del 20,2%. Anche il dato inerente al tasso di partecipazione ad attività formali – ovvero tutte quelle che rilasciano un titolo o una qualifica professionale – non ci fa esultare, con un divario con l’Europa persino più ampio del dato precedente: sono 15,3 i punti percentuali che separano il nostro Paese (49%) dalla media UE (64,3%). Per quanto riguarda quelle non formali, il delta con l’Europa si riduce, assestandosi a 5,4 punti percentuali (42,2% contro il 47,6%).
Insomma, ancora una volta stiamo assistendo ad una fotografia di un Paese iniquo, che per una ragione o un’altra non riesce a costruire delle basi solide per il proprio futuro.
Il gap generazionale e con gli altri paesi europei
Poco fa abbiamo descritto le differenze con la media UE, ma se il confronto fosse stato fatto con i Paesi da sempre riferimento dell’Italia (Germania, Francia, Spagna) il paragone non sarebbe stato comunque felice: quasi in ogni fascia d’età presa in considerazione (18-24; 25-34; 35-54; 55-69) il nostro Paese ha dati peggiori sia per quanto riguarda le attività formali, sia quelle non formali. Solo l’educazione formale nella fascia 25-34 anni vede la Francia far peggio di noi.
In diversi casi osserviamo invece un gap molto ampio: nel tasso di partecipazione dell’educazione formale dei 18-24enni, ad esempio, col dato italiano intorno al 49% e gli altri Paesi tutti sopra al 60% (Spagna e Germania addirittura sopra al 70% e 75%). Ma anche per il tasso di partecipazione a quella non formale si notano grandi differenze: nella fascia 18-24 il gap supera il 10% con la Spagna e addirittura arriva intorno al 20% con Francia e Germania, riproponendosi nelle fasce 25-34 e 35-44, e risultando in quest’ultima addirittura accentuato.
Le differenze territoriali
Come ogni questione che riguarda il Bel Paese, i divari territoriali sono protagonisti anche nell’ambito formativo. C’è da dire, però, che non ci sono solo cattive notizie. Infatti, è vero che al Sud il dato relativo all’uscita precoce dal sistema di istruzione dei 18-24enni è più alto che al Nord (13,6% contro poco più dell’8%), ma è anche vero che al Sud si ha una partecipazione ad attività formali leggermente più alta che al Nord (i dati si attestano rispettivamente all’8,2% e al 7,2%). Anche guardando alla partecipazione ai percorsi pienamente convenzionali come l’istruzione terziaria – le università, gli ITS ecc. – il Sud dice la sua: col 22,3% riesce infatti a posizionarsi dietro al Centro (25%) ma prima del Nord-Est (20,4%).
Le ragioni
Una certezza ce l’abbiamo: i giovani non considerano stimolanti i corsi di formazione. Infatti, per il 67,4% dei 18-24enni l’assenza di motivazione è la principale motivazione a frenare la partecipazione ai corsi di formazione sia formali che non formali. Il fatto che la media europea sia vicina ma più alta (69%) non è per niente confortante. Al netto delle modalità formative che, probabilmente, sono spesso viste come vetuste dai giovani di oggi – soprattutto quelle modalità solo frontali, per le quali si prevede un’interazione minima degli “studenti” – appare chiaro come qualcosa non funzioni nel modello formativo.
Ma siamo sicuri che tutto sia riconducibile alle sole motivazioni?
Ad esempio, la possibilità che i giovani escano da un percorso di istruzione e formazione è fortemente influenzata dal livello di istruzione dei genitori, che probabilmente va a influire sulla percezione della stessa motivazione che muove le persone a formarsi: infatti, se i genitori hanno un diploma di scuola secondaria di I grado il rischio di fuoriuscita è del 24%, mentre cala ad appena il 3% se uno dei genitori possiede un titolo terziario.
La formazione degli adulti
Finora ci siamo concentrati più che altro sulle nuove generazioni. Ma purtroppo guardando le altre fasce d’età la situazione non migliora: la fascia 25-64 anni ha un tasso di partecipazione alle attività formali e non formali del 35,7%, poco più di una persona su tre. Un dato che, essendo quasi 11 punti percentuali sotto il valore medio europeo, ci colloca al 21° posto nel ranking dei 27 paesi Ue, oltre ad allontanare l’Italia dagli obiettivi posti dal Consiglio europeo per il 2025, che fissano per gli over 25 un tasso di partecipazione minimo a questo tipo di attività al 47%.
Andando ad analizzare la composizione del dato, notiamo però che lo squilibrio con l’Europa prevale per le attività non formali, dove il gap tra il tasso di partecipazione italiano e quello europeo è del 10% circa (34,1% e 44,0%), mentre per quanto riguarda quelle formali si parla di un gap del 2,3% (4% e 6,3%). Da qui ne consegue che, a differenza di quanto accade nel resto dei Paesi comunitari, la percezione dell’utilità di attività che formano ma non assegnano alcun titolo è compromessa: sostanzialmente le persone vogliono qualcosa “da mettere nel curriculum”.
L’istruzione come motore dell’ascensore sociale, ma serve consapevolezza
L’istruzione e la formazione non sono solo uno straordinario strumento di emancipazione e il miglior motore dell’ascensore sociale, ma rappresentano anche le fondamenta per il futuro di un Paese. La loro salute è l’indicatore più preciso per prevedere la qualità dello sviluppo sociale e tecnologico dell’Italia. Però, quando si parla di istruzione e formazione nella penisola, la fotografia che ne esce è di perenne e sempre maggiore difficoltà: i dati sull’alfabetizzazione, sull’abbandono scolastico e universitario, sul numero di laureati e via dicendo, sono tutti numeri che ci pongono agli ultimi posti delle classifiche europee.
Ora, senza far leva sulla parte sentimentale della cultura italica (“nel Paese di Dante, Manzoni, Leonardo ecc. non è possibile abbandonare il mondo dell’istruzione”) – che non sarebbe comunque una considerazione sbagliata – io credo che da questo argomento passi gran parte del Paese che sarà. Chiunque governi dovrebbe capire che la spesa nell’istruzione – così come l’altra regina dei tagli al bilancio, la sanità – è il miglior investimento che si possa fare. Invece, continuiamo ad aggrapparci con tutti noi stessi alle eccellenze che abbiamo in Italia (fino ad un certo punto, perché poi le si costringe a scappare all’estero), senza capire che il loro merito è solo una cattedrale nel deserto rispetto alle migliaia di difficoltà che emergono ogni giorno dal mondo della formazione, che non permettono l’emancipazione dalle difficoltà di centinaia di migliaia di persone.
Riccardo Imperiosi, Direttore “Giovane Avanti!”
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