Il velo della ribellione: uno sguardo al passato per comprendere il presente
07.12.2022
In questi ultimi mesi telegiornali, social media e quotidiani ci hanno riportato le terribili notizie riguardanti la reclusione e il conseguente assassinio della giovane ragazza Mahsa Amini, macchiatasi della “colpa” di essersi fatta scappare dal velo una ciocca di capelli. Mahsa Amini purtroppo non è stata l’unica donna vittima della polizia morale, numerosi sono i nomi e le vite stroncate brutalmente per avere trasgredito le “regole”.
Dopo questi assassini, le rivolte si sono accese nelle città iraniane e non solo. Anche il mondo occidentale si è stretto attorno a Mahsa e alle altre donne private della propria libertà di espressione scendendo in piazza per urlare “NO” all’estremismo religioso islamico.
Abituate in Italia, come nel resto del mondo occidentale, ad indossare qualsiasi cosa vogliamo, ad esprimerci con la massima libertà, a decidere liberamente se e come mostrare la nostra femminilità; abituate a manifestare per i nostri diritti, a farci valere dinanzi ad una società ancora maschilista, guardiamo alla realtà islamica come a qualcosa di molto lontano da noi. Nonostante i due mondi abbiano un background culturale e storico diverso, non bisogna dimenticare quanto le donne occidentali abbiano dovuto lottare per ottenere i diritti di cui godiamo oggi. Allo stesso modo, gli avvenimenti in corso in Iran potrebbero segnare l’inizio di un cambiamento positivo per l’ottenimento dei diritti umani e civili delle donne islamiche. Una voce, quella delle donne iraniane, diventata oggi eco delle tantissime altre donne costrette al silenzio.
Si è mormorato molto in questi ultimi giorni di una prima “vittoria” per i manifestanti che scendono in piazza in Iran ormai da tre mesi: la polizia morale, la stessa che ha tolto la vita alla giovane Mahsa Amini, avrebbe dovuto essere sospesa dalle stesse autorità che l’avevano creata. Notizia smentita, purtroppo, altrettanto velocemente nella serata di domenica dalla televisione di stato iraniana. Una situazione complessa che necessita di uno sguardo più approfondito al passato e alla storia più recente per poter meglio comprendere lo status di cui oggi gode la donna in Iran.
Come si è arrivati alla Repubblica repressiva Islamica in Iran?
È l’8 marzo del 1979 quando le donne iraniane scendono a manifestare per i loro diritti civili a causa delle voci che stavano cominciando a diffondersi riguardanti l’introduzione dell’obbligo di indossare il velo nei luoghi pubblici. “Non restiamo in catene” era uno degli slogan utilizzati durante le manifestazioni, probabilmente il più emblematico perché esprimeva al meglio la forza della rivolta. L’obiettivo di Khomeini, Guida suprema dell’Iran del tempo, era proprio quello di “incatenare” le donne, di renderle a poco a poco sempre meno libere e sempre più assoggettate agli uomini, privarle di ogni loro forma di libertà. Così il 10 marzo 1979 viene approvata la legge che rendeva obbligatorio l’uso del velo negli spazi pubblici. Era l’inizio della fine della libera espressione della donna.
Nonostante le numerose rivolte e le resistenze messe in atto, solo cinque anni dopo, l’Assemblea consultiva islamica dell’Iran approvò la legge penale islamica che sancì, per chiunque non avesse indossato l’hijab nelle strade e nei luoghi pubblici, una condanna a 72 frustate. Tale legge si individuava come un vero e proprio fallimento della stessa Repubblica che si era insediata da poco. Difatti, inizialmente, la Repubblica islamica si era insinuata in Iran con l’obiettivo di rivoluzionare il Paese in senso del tutto positivo, ma ciò ha finito per rivelarsi una mera utopia. Come afferma il sociologo iraniano Farhad Khosrokhavar, “la repubblica islamica ha tradito tutte le aspettative rivoluzionarie: prosperità, giustizia sociale, nulla è stato realizzato”.
Tutti questi avvenimenti hanno contribuito alla costruzione di un Paese totalmente repressivo e maschilista, un Paese in cui la donna è vista come un oggetto di proprietà dell’uomo, un Paese in cui della religione si è fatto un obbligo anziché una scelta. Fondamentalmente i diritti delle donne sono sempre venuti dopo qualsiasi altra cosa. Decenni di oscurantismo, arresti e uccisioni, la guerra contro l’Iraq durata otto anni, la povertà che ha dilaniato il Paese per anni hanno fatto rimandare ogni questione legata ai diritti delle donne a un incerto futuro. Inoltre, la religione e la presenza di tutti gli obblighi e i divieti rivolti alle donne ha fatto il resto. Perciò, la lettura strumentalizzata del Corano ha portato nel tempo ad un fanatismo ed estremismo religioso difficilmente sradicabile.
Difatti, è proprio nel Corano che viene chiesto alle donne di indossare un velo lungo che copre i capelli, che scende sul collo e sul seno lasciando scoperto il viso. Numerose donne musulmane decidono consapevolmente e volontariamente di indossare il velo e non considerano quest’ultimo un obbligo, né una privazione né un elemento di minore eleganza e/o femminilità. Anzi, sono convinte che questo sia sinonimo di totale devozione al Signore e che il sacrificio verrà ricompensato da Dio. Al contrario, per altre donne indossare il velo significa essere privati della propria femminilità, identità e, addirittura, libertà.
Oltre il velo: vietato mostrare e mostrarsi.
Tuttavia, la questione è ancora più profonda e problematica e va oltre un “semplice” indumento qual è il velo. Le donne dei Paesi islamici sono tenute ad abbassare lo sguardo, a parlare a bassa voce, a non ridere in pubblico poiché la loro voce viene considerata “awrah”, ovvero vergognosa. L’imposizione di camminare a testa bassa significa in poche parole un “invito”, tutt’altro che sottile, ad annullarsi. Tutti questi sono divieti oppressivi che portano all’inattività e alla passività.
A questo proposito, è importante ricordare la frase pronunciata da Malala Yousafzai, la giovane ragazza pakistana vincitrice del premio Nobel per la Pace, che ha avuto il coraggio di gridare che le donne hanno il diritto di avere voce in capitolo, hanno il diritto di esprimersi e di prendersi il posto che gli spetta nella società: “ho alzato la voce, non in modo da poter urlare, ma in modo da poter far sentire quelli senza voce”.
Uno spiraglio di luce: a piccoli passi verso la libertà.
Dopo la crudele uccisione di Mahsa Amini e delle altre ragazze sacrificatisi per l’ottenimento dei loro diritti e della loro libertà, ci si augura che l’Iran abbia trovato i suoi giovani eroi, quelli che sradicheranno totalmente i Khomenisti. Ciò che sta accadendo oggi in Iran è una ribellione sopita nell’animo di molte persone, delle donne ma anche di tantissimi uomini giovani e meno giovani, da troppo tempo. Uno spirito che non demorde nonostante, ad oggi, dopo tre mesi di rivolta e proteste, più di quattrocento giovani attiviste e attivisti sono morti e circa diciottomila sono stati gli arresti. È una forza dirompente che potrebbe scrivere la storia di un nuovo Iran e tracciare un nuovo percorso di diritti e libertà. Chissà poi che non sarà proprio una donna colei che, un giorno, guiderà questa nazione dilaniata da guerre e uccisioni per poter farla risorgere dalle proprie ceneri. Una cosa certa c’è: le donne e i giovani hanno spezzato le catene, sconfiggendo persino la paura della morte, perché reclamano a gran voce i loro diritti, perché vogliono la libertà!
Di Valeria Nato, Officina Civile
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