Giacomo Matteotti e il riformismo intransigente

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10.06.2022

«Non fu solo il più dotto dei socialisti che scrivessero di economia e di finanza, ma il più infaticabile nel lavoro quotidiano di assistenza amministrativa […] Trasportava la discussione su un terreno concreto di capacità e d’iniziativa […] Esemplificava nei particolari, proponeva modelli di statuti, di regolamento parlando coi contadini come uno dei loro […] Trattandosi di fondare una cooperativa pensava a tutto, consigliava, disponeva, dava l’esempio […] Sdegnava le parate, la febbre degli scioperi [perché] la rivoluzione avviene quando i lavoratori imparano a gestire la cosa pubblica». Queste parole sono dedicate a Giacomo Matteotti da Piero Gobetti, nel luglio del 1924, ad un mese circa da quel 10 giugno in cui il deputato socialista riformista fu rapito da una banda di fascisti e poi barbaramente ucciso.

Gobetti non manifestava certo grossa simpatia per i riformisti, come per i socialisti in genere. E se le sue parole sono veicolate dallo sgomento e dal dolore che l’assassinio di Matteotti provoca in tutta Italia, esse hanno la capacità di dare non solo il senso del rispetto per un combattente per la libertà, ma ne descrivono davvero i tratti fondamentali della sua figura e azione politica. Quella, appunto, di un socialismo possibile, che si realizza con e negli organismi dei lavoratori, da dove parte l’emancipazione di quelle masse diseredate di un Polesine povero, in cui i braccianti muoiono di pellagra.

Una terra, quella del Delta del Po, dove le durissime lotte sindacali del 1920 culminarono nel “Concordato provinciale del lavoro agricolo per il biennio 1920-1922”, con la successiva stipula del nuovo capitolato di mezzadria. I signori della terra avevano perso così il loro controllo sulla forza lavoro. Ed è per questo, per la durezza della lotta, che proprio dalla provincia di Ferrara il fascismo, da movimento locale e periferico, si trasforma in «modello nazionale della milizia».

IL 22 MAGGIO 1885 NASCE GIACOMO MATTEOTTI

È in questa parte d’Italia, e precisamente a Fratta Polesine, che il 22 maggio 1885 nasce Giacomo Matteotti, da una famiglia che aveva raggiunto una certa solidità economica, tanto da poterlo far studiare e laureare in legge. Si iscrisse giovanissimo al Partito socialista italiano, proprio perché colpito dalle condizioni di estrema povertà della sua gente. Ma il socialismo non era certo per Matteotti una prospettiva scontata e irreversibile, ma il suo raggiungimento andava perseguito dalla organizzazione continua delle classi popolari.

Eletto deputato nel 1919, interpretò il suo ruolo in maniera del tutto moderna, studiando nella pratica i fenomeni economici, giuridici e tributari. Oddino Morgari annotava che, per il carattere meticoloso, passava ore nella Biblioteca della Camera «a sfogliare libri, relazioni, statistiche, da cui attingeva i dati che gli occorrevano per lottare, con la parola e con la penna, badando a restare sempre fondato sulle cose». Divenendo così il contraddittore più acuto, coriaceo e scomodo per tutti i governi del primo dopoguerra. Una guerra, quella del 1915-1918 verso la quale Matteotti, combatté con tutte le sue forze da posizioni più intransigenti anche di Turati e Treves, temendo sia gli effetti negativi che il conflitto poteva avere sul movimento socialista, che su una nazione giovane come l’Italia.  Il 5 luglio del 1916, fu condannato a trenta giorni d’arresto con la condizionale per “pubbliche dichiarazioni disfattiste”.

LA MANCATA PARTECIPAZIONE AL CONGRESSO DI LIVORNO DEL 1921

Grazie alla sua preparazione giuridico-economica comprese con lungimiranza le conseguenze e gli effetti dei trattati di pace stipulati dai vincitori nei confronti della Germania di Weimar. «Gli egoismi patriottici – affermò – e nazionalismi non consentiranno a togliere il piede dal collo dai popoli vinti militarmente o soggetti economicamente, se non forse quando l’abisso sarà irrimediabilmente aperto».

Non partecipò al Congresso di Livorno del 1921, dove il socialismo si scisse con la nascita del Pcd’I (Partito comunista d’Italia).

Non lo fece, perché era dovuto tornare nel suo collegio di Ferrara-Rovigo, dove da tempo imperversava la violenza fascista, accettata e tollerata dal governo e dalle autorità locali, che assistono impassibili alla distruzione delle organizzazioni operaie e contadine, alle minacce e alla violenza. Per cercare di colmare le molte conseguenze dovute al vuoto politico-amministrativo che quelle violenze e i soprusi arrecavano al movimento socialista, Matteotti si impegnò allo spasimo, trovandosi anche a ricoprire la carica di segretario di un sindacato con quasi 90.000 iscritti.

In un intervento alla Camera aveva già ben identificato il fenomeno fascista, affermando che «in Italia esiste una organizzazione pubblicamente riconosciuta e nota nei suoi aderenti, nei suoi capi, nella sua composizione, nelle sue sedi, di bande armate, le quali dichiarano […] apertamente che si prefiggono atti di violenza, atti di rappresaglia, minacce, incendi».

DOPO IL XIX CONGRESSO DEL PSI MATTEOTTI SEGUE TURATI

Dopo il XIX congresso del Psi svoltosi a Roma nell’ottobre del 1922, nel quale i riformisti furono espulsi dalla corrente massimalista, Matteotti segue Turati e diventa segretario della nuova formazione socialista: il Partito socialista unitario. A questa formazione daranno la loro adesione anche la maggior parte dei dirigenti sindacali della Cgdl, tra cui Buozzi.

Matteotti nei confronti del fascismo è un vero intransigente, tanto da polemizzare con il segretario della Cgdl D’Aragona, che spinge prima verso una pacificazione nazionale con Mussolini, per poi rompere il vincolo di collaborazione con i socialisti («per mantenere il sindacato sul terreno specifico della difesa degli interessi dei lavoratori»), chiamandosi di fatto fuori dalla lotta al fascismo, nonostante il discorso tenuto da Bruno Buozzi alla Camera contro la richiesta di «pieni poteri» avanzata da Mussolini. Matteotti sarà durissimo nei confronti di quella parte dei dirigenti riformisti del sindacato attratti dalla pacificazione offerta dai fascisti, ribadendo senza mezzi termini che «in una dittatura non esiste più né il comune, né la cooperativa, né l’organizzazione». Non mancando di criticare anche i comunisti da lui accusati di essere «per la dittatura e per il metodo della violenza delle minoranze; noi [invece] siamo socialisti e per il metodo democratico delle libere maggioranze. Non c’è nulla in comune tra noi e voi».

IL DISCORSO DEL 30 MAGGIO 1924

Il 30 maggio del 1924, pronuncia alla Camera un discorso di fuoco contro i brogli dei fascisti durante la tornata elettorale del 6 aprile, in cui «nessuno si è trovato libero, perché ciascun cittadino sapeva a priori che, se anche avesse osato affermare a maggioranza il contrario, c’era una forza a disposizione del governo che avrebbe annullato il suo voto e il suo responso».  Per questo atto di accusa, il 10 giugno del 1924 fu rapito e ucciso da una banda di fascisti mentre passeggiava su Lungotevere Arnaldo da Brescia. Il suo corpo senza vita verrà ritrovato solo il 16 agosto.

Mentre Mussolini si assunse tutta «la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto», Farinacci affermò che era il momento di «smatteottizzare» l’Italia. Il fascismo si fa regime, ma l’esempio di Matteotti gli sopravviverà, dando forza e speranza ad una generazione di giovani che hanno continuato a lottare per la libertà di tutti.

 

Raffaele Tedesco

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