Child penalty

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06.10.2022

In Italia abbiamo un grave problema di denatalità. Ogni anno le nascite in Italia calano di oltre diecimila unità per diversi fattori: la difficoltà di accesso al mercato delle abitazioni, quella che i giovani incontrano nel mondo del lavoro, la tardiva indipendenza abitativa (da interpretare come un effetto delle prime due) sono solo alcune delle cause indirette di questa decrescita. A queste spesso si aggiungono altri fenomeni come la child penalty che disincentivano direttamente la volontà di fare figli.

Cos’è la child penalty e quanto è diffusa

La child penalty è una penalizzazione sul reddito (o comunque con svantaggi sul posto di lavoro rispetto la posizione antecedente) delle donne che avviene quando queste entrano in maternità. In pratica dopo la maternità vanno a peggiorare sia il trattamento economico, che – talvolta – le condizioni lavorative o addirittura il livello, come se la maternità fosse una colpa da espiare.

Dalle ultime analisi dell’INPS si evince come, oltre ai primi due anni di maternità in cui solitamente il fenomeno è molto accentuato, questo permanga anche nel lungo periodo: dopo oltre quindici anni, infatti, i figli “costano” alle madri un taglio al salario lordo annuale di più di cinquemila euro rispetto a quelli delle donne senza figli nel periodo pre-maternità, circa il 53% in meno. Non solo salari, ma anche diminuzione dell’orario: infatti le settimane lavorate in meno sono circa 11 all’anno e la percentuale di donne con figli con contratti part-time è quasi tripla rispetto a quelle senza figli.

Ovviamente il fenomeno si aggrava con l’aumentare dei figli. Il tasso di occupazione non varia molto per gli uomini con uno (87,9%), due (88,7%), tre o più (83,8%) figli minorenni, mentre per le donne il discorso è diverso: le madri lavoratrici con un figlio minorenne sono solamente il 61,3%, quelle che ne hanno due sono il 57%, quelle con tre o più minori a casa addirittura il 44,5%. Ancora una volta sono le donne a rimetterci con l’aumentare dei figli, dovendo subire un decremento maggiore nell’occupazione rispetto ai padri.

A questi dati si aggiunge quello dell’”esercito del focolare involontario”, ovvero quello relativo alle donne che sono o si sentono costrette a lasciare il lavoro per prendersi cura della famiglia, un fenomeno che va a ridurre sia le possibilità di reinserimento futuro nel mercato del lavoro che il loro reddito presente.

Il divario occupazionale e la pandemia

In Italia già prima della pandemia il divario occupazionale di genere – ovvero la differenza tra le donne e gli uomini occupati – era molto marcato, circa il 18,2%. A questo si aggiunge un marcato divario territoriale: se nel Centro-Nord le differenze si mantengono intorno al 15 % (sotto la media quindi), la forbice si allarga fino a 23,8% nel Sud e Isole.

Nei due anni successivi, ovvero nel periodo in cui la crisi pandemica ha rivoluzionato le nostre vite, la situazione è peggiorata. In termini assoluti sono stati persi oltre 450 mila posti di lavoro e il 55% di questi appartenevano a delle donne (249 mila).

Questi dati restituiscono una fotografia chiara di un fenomeno che dovrebbe appartenere a un’altra epoca, ma che nei fatti si inasprisce di giorno in giorno. Un fenomeno che limita il ruolo della donna alla sola gestione familiare, che esaspera tutti quegli stereotipi di genere dai quali la donna sta cercando da secoli di emanciparsi. Un fenomeno che aggrava ancora di più le discriminazioni occupazionali che riguardano le donne, già penalizzate in più ambiti lavorativi ed economici rispetto agli uomini.

Nel terzo millennio il ruolo della donna non deve e non può essere questo.

Riccardo Imperiosi, Giovane Avanti

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