A 37 anni dal Live Aid, possiamo dire che il rock sia morto?

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13.07.2022

Il 13 luglio 1985, allo stadio di Wembley di Londra e al JFK di Philadelphia, venne messo in scena il Live Aid, concerto di beneficenza per la carestia in Etiopia degli anni 1983-1985. A Londra parteciparono all’evento 72.000 persone. Mentre a Philadelphia 89.484, oltre agli 1.9 miliardi di telespettatori da 150 diverse nazioni. Pari a quasi il 40% della popolazione mondiale di allora. Fu uno dei più grandi collegamenti televisivi della storia, e da allora il 13 luglio è stato scelto come giornata mondiale della musica rock.

Il co-organizzatore Bob Geldof ha dichiarato che con il Live Aid si era riuscito a mettere al centro dell’attenzione un problema ignorato dalle agende politiche: la carestia in Etiopia. Ciò utilizzando la lingua franca del mondo, “non l’inglese, ma il rock and roll”. Perché all’epoca il rock si poteva ancora considerare come tale, un fenomeno globale che si ritagliava una fetta dominante dell’industria musicale.

Il crollo del rock nelle classifiche – il paziente sta bene?

Nella Top 50 di Spotify di questa settimana, l’unica canzone che rientra ragionevolmente nello spettro rock è Master of Puppets dei Metallica (1986), tornata momentaneamente in auge grazie alla serie Netflix Stranger Things, ambientata negli anni ’80. Nella ultima classifica Billboard 200, tra gli album più popolari della settimana si trovano – in fondo – alcuni classici rock (ad esempio Back in Black degli AC/DC e Abbey Road dei Beatles), ma è difficile trovare delle nuove uscite rock dal successo planetario.

Tra gli amanti del genere, è ormai saggezza popolare che l’epoca d’oro in cui il rock era un fenomeno dominante sia ormai finita. Ma per inoltrarsi in una riflessione interessante occorre liberarsi da luoghi comuni e reazionarismo musicale. Innanzitutto perché la definizione di rock, seppure spesso sia intuitiva, presenta difficoltà, sottigliezze e controversie, data la mole gigantesca di stili e sottogeneri.

Per mantenersi generali, ma accurati, occorre utilizzare un parametro storico-stilistico, ovvero l’evoluzione dalla musica blues e rock n’ roll, e/o uno tecnico-strumentale. Quindi la presenza dominante di strumenti come chitarra, basso e batteria. La chitarra elettrica inoltre, specialmente se distorta, presenta un importante filo conduttore.

Spoiler: utilizzare un parametro piuttosto che l’altro, o magari una sovrapposizione di entrambi, una volta posti di fronte all’evidenza danno risultati simili. A partire dagli anni ottanta, con qualche grossa eccezione negli anni novanta per poi riprendere nei primi del duemila, il rock nelle classifiche è in calo.

A livello mainstream, il rock non fa lontanamente gli ascolti che faceva in passato. È vero che commenti drastici come “il rock è morto” sono decisamente clickbait (ops). Si trova moltissimo rock di alta qualità se lo si sa cercare (o se gli algoritmi delle piattaforme streaming funzionano bene). Ma il fatto che serva saperlo cercare è indicativo di una tendenza del rock a diventare sempre più fenomeno “colto” e di nicchia.

Il ruolo dell’industria musicale

Fin qui nulla di sconvolgente, ma è interessante interrogarsi sulle cause di questo declino di popolarità. Limitarsi all’analisi strumentale permette di fare delle constatazioni. Del tipo: “dagli anni ’80 i sintetizzatori e i campionamenti hanno iniziato a diventare protagonisti rispetto alla chitarra elettrica”. Però gli spunti più interessanti in materia nascono da un’analisi interna dell’industria musicale, e dalla sua evoluzione in parallelo allo sviluppo di internet e al progresso tecnologico delle tecniche di registrazione.

Più che un problema del rock in sé, si è verificato un calo di importanza dell’elemento individuale, umano, imperfetto, che aveva caratterizzato il rock dai suoi albori blues alle varianti più moderne come il grunge dei Nirvana. Internet ha fatto sì che le grosse etichette discografiche avessero dei parametri ancora più chiari per definire un successo sicuro, e un veicolo per renderlo virale. E per ottenere questo successo è vitale l’utilizzo pesante di software musicali per rendere le tracce perfette, lucidate, luccicanti. Autotune dove la voce non è perfettamente precisa, linee di basso campionate a computer e percussioni digitali.

Più la musica di successo si è fatta perfetta, più la sua qualità è calata. I musicisti hanno perso il loro potere nell’industria musicale. Il bassista jazz Jeff Berlin, in un’intervista, ha infatti dichiarato “negli anni ’70 l’industria musicale era in mano ai musicisti, oggi non è più così. […] Se Jimi Hendrix avesse registrato musica oggi, nessuno lo avrebbe notato”. Gli artisti hanno spesso meno potere sulle proprie canzoni. Talvolta sono semplici esecutori di canzoni scritte da gruppi di produttori che tengono a mente le logiche del successo di mercato.

Cenni di ripresa per i musicisti?

Ci sono però artisti mainstream che continuano a fare buona musica, a scrivere buona musica, e a eseguire con talento buona musica. Adele, Billie Eilish, i Silk Sonic (formati da Bruno Mars e Anderson .Paak) dimostrano che musica umana, sapientemente prodotta ma non brutalmente digitalizzata, di spessore musicale, ispirata a i grandi del passato ma innovativa, può ancora fare grandi numeri.

I Maneskin sono la prova che quattro ragazzi con chitarra, basso e batteria (e senza autotune) possono riempire stadi in tutto il mondo. Molti puristi li criticano perché non presentano granché di nuovo dal punto di vista musicale. Le critiche sono legittime e fondate, ma non si può non lodare il loro tenere vivo lo spirito rock, fatto di musicisti, cantautori, giovani, spiriti liberi e radicali.

Il fatto che un virtuoso jazz come Jon Batiste abbia spopolato ai Grammy poi è decisamente rincuorante per i musicisti. Si spera che a essere rincuorati siano anche i produttori discografici, e che si ricominci quindi a dare più libertà creativa agli artisti e a chi la musica la suona, individui vivi ed emotivi.

 

Matteo Celli, Testate sul Banco

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