8 settembre 1943: un popolo lasciato solo e l’inizio della riconquista della libertà

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08.09.2022

«Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».

Con queste parole, il capo del governo italiano, il generale Pietro Badoglio, si rivolgeva dalla radio alla nazione italiana l’8 settembre del 1943. L’Italia si arrendeva agli Alleati e lo faceva secondo il principio della resa incondizionata. Gli italiani speravano che l’incubo della guerra e delle privazioni fosse finito. In fondo, Mussolini era stato estromesso dal potere nella notte tra il 24 e il 25 del luglio precedente, dopo l’ordine del giorno del Gran Consiglio del fascismo voluto da Dino Grandi, con il quale si faceva appello al re per il ripristino della legalità costituzionale, con la conseguente riassunzione da parte della Corona delle proprie prerogative.  Il giorno dopo, Mussolini, recatosi a villa Torlonia per conferire con Vittorio Emanuele III, fu per ordine di questo arrestato e sostituito alla guida del governo da Badoglio.

Il nuovo governo iniziò, in un clima di grande incertezza, confusione e in assenza di un preciso piano, a cercare di stabilire dei contatti con gli anglo-americani., fino alla firma dell’armistizio avvenuta a Cassibile il 3 di settembre e reso pubblico solo cinque giorni dopo. Ma l’8 settembre del 1943 le sofferenze del popolo italiano non erano affatto finite.

Se è anche vero quello che scrivono Roberto Battaglia, che nella sua Storia della Resistenza parla di «germi della rinascita» e Giorgio Bocca che nella Storia dell’Italia partigiana dice che «l’avanguardia (resistenziale ndr) di settembre ha radici profonde», non va dimenticato che quel giorno un intero popolo fu lasciato solo in balia di sé stesso e di un invasore tedesco pronto ai peggiori crimini, pur di mantenere il controllo sulla nostra penisola.

L’armistizio divenne una vera e propria rotta. Si assistette allo sfascio dello Stato: «erano rimasti gli italiani ma non c’era più l’Italia».

Già durante le trattative per l’addivenire ad un accordo con gli Alleati, Badoglio non aveva mostrato alcuna affidabilità. Infatti, nonostante l’impegno concordato con il generale Alexander per la comune difesa di Roma, il capo del governo italiano non prese nei fatti alcuna iniziativa. Ma dopo il proclama dell’8 settembre, mentre le prime colonne tedesche muovevano ad occupare i principali punti strategici dell’Italia, l’esercito italiano fu lasciato senza alcuna chiara istruzione, mentre il re fuggiva pavidamente verso Brindisi, che era sotto il controllo degli inglesi.

Non c’era più Stato e come scrisse Massimo Salvadori nella sua Storia della Resistenza italiana, pubblicato nel 1956, «generali e prefetti, direttori generali e questori abbandonarono i loro posti – salvo pochi. Il 25 luglio era scomparsa, come se non fosse mai esistita, l’impalcatura fascista. Dopo l’8 settembre scomparivano la burocrazia civile e quella militare; in molte provincie non sopravvivevano che le amministrazioni comunali».

Davanti a questo disastro, qualcuno ha parlato di tradimento della patria. Ma sarebbe più giusto dire che la patria era stata tradita vent’anni prima, con l’avvento del fascismo, che un’intera classe dirigente non aveva saputo e voluto impedire, più impegnata com’era a controllare le masse, evitando una trasformazione più veloce e profonda dello stato in senso democratico.

Il ventennio fascista distrusse ogni germoglio democratico che aveva provato ad attecchire, anche grazie al sindacato, nell’Italia unita. Tanti italiani sinceramente educati alla libertà erano morti; in tanti erano stati rinchiusi nelle carceri, costretti al confino o avevano alimentato le schiere dei fuoriusciti. Qualcuno, come i cospiranti raccolti intorno al “Centro socialista interno”, avevano provato a resistere sul territorio italiano.

Ma sul nostro territorio, nei posti di responsabilità, sempre usando le parole di Salvadori, «non vi erano che individui mediocri, intelligenti forse, ma dall’animo di servi; avevano obbedito per vent’anni, avevano fatto carriera perché avevano saputo obbedire».

Ma nello sfascio totale, c’è chi ha voluto continuare a combattere coraggiosamente contro i tedeschi. Il sacrificio della divisione Acqui a Cefalonia ne è la testimonianza. Ma reparti italiani combatterono valorosamente anche per tentare la difesa di Roma, mentre i tedeschi facevano prigionieri oltre 600.000 soldati, inviati oltre le Alpi e di cui oltre 30.000 morirono di stenti.

Inizia ad organizzarsi la Resistenza intorno alle uniche strutture esistenti, per quanto deboli: i partiti antifascisti. Ed il coraggio dei partigiani sarà un fattore fondamentale per la rinascita civile e morale del nostro paese, oltre che per l’apporto allo sforzo bellico degli Alleati per la sconfitta del nazifascismo.

Solo il 25 aprile del 1945, gli italiani riconquistarono la libertà, attraversando oltre che le tragedie del conflitto mondiale, anche quelle, dagli strascichi più profondi e duraturi, di una guerra civile. L’8 settembre 1943 è una data chiave della nostra storia.

Lo è per il ricordo delle sofferenze di milioni di persone, ma anche perché si ricomincia, in mezzo a difficoltà e mostruosità, a vedere un’Italia diversa grazie alla Resistenza. «In quel vuoto può cominciare a nascere quello che verrà dopo»: la democrazia e la consapevolezza dell’importanza di vivere come uomini liberi.

Raffaele Tedesco

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