Cosa vuol dire essere un precario

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23.08.2021

Del “fenomeno” precariato si parla ormai da più di vent’anni.

Una condizione che è stata spesso, nel tempo, associata al lavoro giovanile, in profonda crisi nel panorama occupazionale italiano. Quasi nessun giovane si aspetta, oggi, di poter accedere al mondo del lavoro con in mano già, alla prima esperienza, un contratto stabile.

Nascosto dietro al concetto di flessibilità, che nulla a che vedere con il precariato, il contratto a termine resta la finestra più diffusa per l’accesso al lavoro.
Senza scomodare i dati ufficiali, un rapido sguardo alle offerte di lavoro mostra subito un utilizzo eccessivo dei contratti a termine o, peggio, degli stage sottopagati o totalmente non retribuiti con “possibilità di stabilizzazione” che, spesso, si traduce in un licenziamento tout court e a norma di legge.

Che si tratti di una piccola e media impresa o di grandi multinazionali dal mercato fiorente, i contratti a tempo determinato o atipici la fanno da padrone. E ormai, sono in tanti a mostrare rassegnazione. Il contratto a tempo indeterminato è un obiettivo pressoché difficile da raggiungere.

In ogni settore, la proposta aziendale di un contratto della durata di un anno sembra una fortuna inestimabile, soprattutto per chi è rimasto imbrigliato nel sistema del precariato da decenni.
Alla fine di luglio, sono stati pubblicati i dati dell’Osservatorio nazionale sul precariato dell’INPS relativi ad aprile 2021. Le assunzioni a termine sono state la forma preferita dalle aziende, su un totale di 1.715.257 attivazioni.
In diminuzione del 29% le tanto sospirate trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato. Mentre le cessazioni nei primi quattro mesi del 2021 sono state più accentuate nel caso di contratti in somministrazione (- 47%) e dei contratti di apprendistato (- 29%)
Insomma, la platea di lavoratrici e lavoratori precari è ancora tanto ampia e questo spesso comporta conseguenze non irrilevanti dal punto di vista economico e sociale. Il precariato, ormai, non interessa più solo i giovani, ma è una condizione che tocca tutti trasversalmente, soprattutto nelle fasce più deboli e fragili della società. Una condizione che dovrebbe essere provvisoria si ferma in un loop estenuante: essere precari a vita, logora, e non poco.

I giovani che entrano nel mondo del lavoro per la prima volta potrebbero usufruire del contratto di apprendistato. Un contratto che definisce norme e retribuzioni dignitose, all’interno di un contesto di qualità del lavoro che ha la sua importanza anche in termini di competitività e produttività. Dà prospettive, insomma, e tutele, alle quali tanti sono purtroppo ormai inclini a rinunciare pur di avere un lavoro.
L’orologio che gira inesorabile, scandendo i giorni che mancano al termine del contratto non è un incentivo a lavorare meglio. Magari di più, perché si rinuncia a ferie, permessi, malattia per tentare la riconcorsa al rinnovo del contratto per qualche altro mese, ma non meglio. L’ombra della disoccupazione, la ricerca di un altro impiego, perché non si sa mai, la disperazione dell’incertezza non è funzionale a nessun impegno professionale: è deleteria e nuoce al lavoratore e all’azienda.
È un dato di fatto per chiunque l’abbia vissuto che il precariato sia un girone infernale da cui è difficile venire fuori soprattutto per chi si trova in una situazione di fragilità.

Giovani poco specializzati, lavoratori over 40 che hanno perso l’impiego, donne che hanno lasciato il lavoro a causa dell’inconciliabilità del lavoro con la maternità faticano a uscire da quella che sembra una condanna. Due mesi, quattro, sei. E poi Naspi, Dis-Coll, reddito di cittadinanza, qualche forma di sostegno al reddito che consenta di respirare un po’, corsi di formazione base strutturati male a fronte della rinuncia a un a formazione seria ma tanto, troppo costosa.

Un disegno un po’ inquietante questo, lo sappiamo, ma è la realtà che tanti giovani e meno giovani si trovano a vivere. La mancanza di politiche attive del lavoro pesa come un macigno sulla società che così, non progredisce.

In questo l’esperienza del reddito di cittadinanza è esemplare. Un cortocircuito sociale che ha generato tanta spesa senza risultati se non quelli, pur sacrosanti, dell’assistenza alle fasce più deboli. Quello che doveva o poteva essere un investimento si è trasformato in un ulteriore carcere situazionale.

Precariato vuol dire non potersi costruire una carriera. Non potersi formare adeguatamente, sorvolare sui diritti, sentirsi sempre meno del tuo collega che ha il “blue badge”. Precariato è fare i conti ossessivamente ogni mese, per quello corrente e per quello che verrà.
Precariato vuol dire pregare anche se non credi, sperare, anche se non lo sai fare, che un tizio, un giorno con i pianeti a favore, ti dica “ok, ancora un altro mese”. Oppure “va bene te lo diamo questo mutuo” oppure, la chimera delle chimere “contratto a tempo indeterminato”. Quel pezzo di carta che ti permette di dormire anche solo una notte senza l’ansia di dover finire ad abitare sotto Ponte Garibaldi. Ampi spazi, vista San Pietro.
Precariato è starsene sul divano il sabato sera a promettere a se stessi e alla propria famiglia, col cuore gonfio di sogni, che “vedrai, ce la faremo“.

Bisogna cambiare questo binario che viaggia in tondo senza portare a nulla.
Se sono i sogni a dare forma al mondo, non possiamo permettere che si buttino via.

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