Selfie patologici: quando mostrarsi diventa un’ossessione

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22.03.2023

Nell’era 2.0, con l’avvento dei moderni smartphone e dei social network, si è affermata sempre di più la pratica dei “selfie”, ovvero gli autoscatti fatti soli o in compagnia con lo scopo di condividerli con i nostri amici virtuali. 

Tale pratica potrebbe sembrare del tutto innocua poiché permetterebbe agli utenti dei social di postare le foto per ricordare dei bei momenti vissuti, attimi di vita importanti che li hanno resi felici e che, per questo motivo, vogliono condividere con gli altri. Pensiamo, ad esempio, ad eventi come la laurea, il compleanno, il matrimonio, la nascita di un/a figlio/a, una vacanza da sogno. Sono tutti momenti vissuti in prima persona che però si ha il bisogno di immortalare per renderli eterni e riviverli ogni volta che si vuole. Fin qui nulla di strano. Esiste, però, una linea sottile che divide la pratica normale di scattare selfie da quella ossessivo-compulsiva. 

Quando i selfie diventano patologici?

Una ricerca condotta da psicologi dell’Università di Nottingham Trent, in Gran Bretagna, e della Scuola di Management Thiagarajar di Madurai in India, ha diagnosticato la “selfite”. Una vera e propria patologia che affligge le persone e, in particolare, i giovani della nostra generazione. I ricercatori hanno analizzato e studiato gli abitanti dell’India sia perché quest’ultimo è il Paese con il maggior numero di iscritti a Facebook, sia perché presenta un numero elevato di vittime di selfie scattati in luoghi pericolosi e improbabili. Difatti, oltre a minare lo stato psicologico delle persone che diventano ossessionate dall’autoscatto e dalla condivisione di esso, tale pratica può trasformarsi in qualcosa di molto più pericoloso, mettendo a rischio la propria vita. Anche in Italia abbiamo avuto casi patologici di giovani che hanno messo a repentaglio la propria vita per un selfie. Nel febbraio 2022, a Firenze, un ventenne ha perso la vita cadendo dal tetto della sua ex scuola dove era salito di notte con un amico per scattarsi un selfie. Purtroppo, a questo episodio potremmo aggiungerne tanti altri che proverebbero l’esistenza di un reale problema. A questo punto la domanda sorge spontanea: come si può arrivare a rischiare la propria vita per un selfie? 

Secondo la ricerca condotta dagli psicologi, la gravità della selfite può essere “misurata” in tre stadi: borderline, acuta e cronica. Il primo stadio è quello meno preoccupante, ma che rappresenta il primo gradino verso la dipendenza: il soggetto scatta un minimo di tre selfie al giorno ma non li pubblica; il secondo stadio riguarda chi si fa almeno tre autoscatti al giorno e li pubblica sul proprio profilo; il terzo e ultimo stadio rappresenta quello dei soggetti patologici che deve destare maggiore preoccupazione: riguarda coloro che avvertono la necessità di scattare selfie continuamente e pubblicarne almeno sei al giorno con i loro amici virtuali. Da ciò si evince che, una persona affetta da tale patologia, diventa ossessionata dal condividere i propri scatti con gli altri poiché è seriamente tormentata dal desiderio di mostrarsi, di essere vista per essere accettata. Difatti, la selfite affligge soprattutto soggetti che hanno poca autostima e cercano attenzioni e accettazione da parte della società.  Ma non solo. Questa continua smania di scattare delle foto a sé stessi è stata considerata dall’APA (Associazione Americana di Psichiatria) un sintomo moderno di dismorfofobia. 

Dismorfofobia e selfite 

La dismorfofobia è la paura ingiustificata di essere brutto o deforme. Con l’avvento dei social questa paura è diventata sempre più forte e presente soprattutto tra i ragazzi che temono il confronto fisico con i loro coetanei. I social sono diventati una vetrina nella quale mostrarsi e pubblicare la parte migliore di sé; perciò, i selfie costituiscono il miglior mezzo attraverso il quale riprenderci nel momento apparentemente più felice e nella migliore versione di noi stessi. Questo è possibile anche grazie ai filtri che invadono i social come Instagram poiché continuamente creati dagli utenti. I filtri permettono di modificare il nostro aspetto, di levigare il viso, cancellare imperfezioni, cambiare il colorito della pelle, in poche parole danno la possibilità di indossare una maschera per renderci più attraenti agli occhi degli altri. In questo modo la persona affetta da dismorfofobia continuerà a scattarsi centinaia di selfie per rispondere ai canoni di bellezza attuali, utilizzando dei filtri, diventando l’impostore di sé stesso e abbandonandosi ad una felicità temporanea dovuta all’accettazione sulla piattaforma da parte degli altri. 

Tuttavia, quando si spegne il telefono si rimane da soli e senza filtri con la vera parte di noi stessi che non si mostra agli altri, la parte che facciamo più fatica ad accettare e che cerchiamo di nascondere. Cercare di aumentare la propria autostima e soddisfare il proprio bisogno di attenzioni attraverso l’appropriazione sui social network è un palliativo che alla lunga rischia di ritorcersi contro, come un cane che si morde la coda: più si ottengono like più ci si ossessiona e più si ha la sensazione di dover essere a tutti i costi più seducenti degli altri. 

A suon di scatti e post l’esercito dei selfie ha finito davvero per non avere più contatti in carne ed ossa con gli altri e soprattutto con sé stessi, contatti necessari a vedersi oltre le ossessioni e quell’idea di perfezione che non esiste nella realtà. 

Pertanto, bisogna lavorare sulla propria autostima, accettando se stessi per come si è realmente senza preoccuparsi di cosa pensano gli altri, perché ricordiamo che, come disse Oscar Wilde, “amare se stessi è l’inizio di una lunga storia d’amore che dura tutta una vita”. Siamo noi i compagni di noi stessi e dobbiamo amarci per ciò che siamo. 

Valeria Nato, Officina Civile

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