Assurdo: nel 2057 in pensione a 74 anni?
06.09.2023
Le proiezioni per il 2057 raccontano di un’uscita dal mondo del lavoro a quasi 74 anni con un importo netto mensile di 1099 euro. Una catastrofe sociale.
Recentemente si è svolta a Napoli l’Assemblea Generale del Consiglio Nazionale Giovani, l’organo consultivo cui è demandata la rappresentanza dei giovani in Italia. Durante i lavori è stata presentata un’importante ricerca sulla situazione contributiva e sul futuro delle pensioni dei giovani.
Come possiamo immaginare, niente buone notizie. Ormai la speranza di vedere la nostra – e le prossime a maggior ragione – generazioni in pensione è ridotta al lumicino, che va a spegnersi definitivamente quando la speranza è quella di una pensione dignitosa: con il sistema attuale le proiezioni per il 2057 raccontano di un’uscita dal mondo del lavoro a quasi 74 anni con un importo lordo mensile di 1577 euro, che al netto dell’Irpef diventano 1099. Una catastrofe sociale.
La ricerca
La ricerca, dal titolo “Situazione contributiva e futuro pensionistico dei giovani. Quali risposte all’inverno previdenziale”, è stata realizzata dal Consiglio Nazionale dei Giovani in collaborazione con EU.R.E.S. Ricerche Economiche e Sociali.
Secondo Alessandro Fortuna, Consigliere di Presidenza del CNG con delega alle politiche occupazionali e previdenziali, la situazione è tragica: “una stima che evidenzia la grave distorsione del sistema pensionistico, così come attualmente definito, che non soltanto proietta nel tempo le disuguaglianze reddituali, rinunciando a qualsivoglia dimensione redistributiva, ma addirittura risulta punitivo verso i lavoratori con redditi più bassi, costretti a permanere nel mercato del lavoro (al di là dell’anzianità contributiva) per tre o addirittura sei anni più a lungo dei loro coetanei con redditi più alti e ad una maggiore stabilità lavorativa”.
Le retribuzioni dei giovani: siamo sempre più poveri
I giovani sono sempre più poveri, anche a distanza di dieci anni e non dovendo saltare intere generazioni. I dati ci dicono che la retribuzione lorda annua media nel 2011 era di 20.682 euro, dato che nel 2021 sale a 21.868: un aumento che però non ha riguardato le fasce d’età più giovani, visto che nelle fasce considerate troviamo un aumento molto più esiguo: nella fascia 25-34 anni (appena 569 euro) e addirittura una diminuzione di 221 euro per gli under 25. E comunque stiamo parlando di cifre – quelle delle fasce considerate – che mediamente si aggirano sui 14.500 euro lordi annui, circa i due terzi della media complessiva.
Caso particolare gli stagionali che, come vedremo tra poco, sono in aumento: la loro retribuzione lorda annua media corrisponde a 5.112 euro, ovvero solo dei miseri 426 euro lordi mensili! Questo si chiama lavoro povero, un lavoro che toglie definitivamente ogni possibilità di immaginazione di un futuro pensionistico dignitoso.
Anche il divario di genere va aumentando con le nuove generazioni, un cambio di passo che EURES definisce “preoccupante in termini sociali, culturali e di prospettive di competitività del sistema Italia”. Infatti, se nel 2011 la retribuzione lorda annua media si attestava a 12.448 euro tra le lavoratrici under 35 contro i 16.083 euro tra i loro coetanei – con uno scarto di 3.635 euro – nel 2021 troviamo i lavoratori più ricchi, con una retribuzione di 16.419 euro, e le lavoratrici più povere, con 12.136 euro lordi all’anno di media: lo scarto aumenta a 4.283 euro.
La discontinuità lavorativa e il precariato: parola d’ordine “instabilità”
Le riforme effettuate negli anni hanno moltiplicato il precariato: è semplicemente un dato di fatto. La percentuale di giovani lavoratori con contratti a tempo indeterminato si è sensibilmente ridotta nell’ultimo decennio, passando dal 70,3% del 2011 al 60,1% del 2021. Ovviamente, questo ha prodotto un aumento dei contratti a tempo determinato e stagionali, che ricordiamo non offrire alcuna garanzia nè presente nè futura – dal punto di vista previdenziale – per i giovani: nel primo caso le quote si sono alzate di sei punti percentuali, dal 28,1% nel 2011 al 34,1% del 2021, mentre nel secondo (in cui peraltro si registrano livelli retributivi più esigui) si passa dall’1,6% al 5,8%.
Anche guardando al numero di giorni lavorati nell’anno solare ci si accorge di come la situazione sia estremamente frammentata: tranne che nel caso dei contratti a tempo indeterminato (250 giorni all’anno), si parla di una quantità minima per i contratti stagionali – appena 81 giorni – e di appena superiore per i contratti a tempo determinato, con 133 giorni.
Per ovviare a questa frammentazione EURES propone degli strumenti di sostegno alla continuità contributiva dei giovani per “attutire” le negative conseguenze future.
Questo modello è sostenibile?
Nella ricerca si legge chiaramente che “sebbene il quadro emerso non possa invitare a un semplicistico ottimismo, le analisi svolte mostrano quanto l’insistenza sull’insostenibilità della spesa pensionistica rischi di produrre un’eccessiva semplificazione del dibattito pubblico: come si è visto, infatti, la spesa per le sole pensioni di vecchiaia, al netto dell’Irpef, si mantiene costantemente al di sotto del 10% del Pil (al lordo di tale imposta nel periodo 2015-2021 passa dall’11,% al 12,7%), rappresentando, così, una voce di spesa tutt’altro che insostenibile, seppur cospicua”. Quindi gli interventi non sarebbero da eseguire per rendere sostenibile il sistema pensionistico ma per dare dignità al suddetto sistema nel futuro, attraverso interventi alla continuità lavorativa, all’incremento dell’occupazione e all’incentivo della natalità, oltre a misure redistributive anche in campo fiscale.
Come sarà il futuro del sistema pensionistico?
Prima premessa: ovviamente qualsiasi tipo di previsione funge solo ed esclusivamente da indicatore, in quanto le variabili presenti in un arco di tempo così lungo sono troppe per rendere completamente attendibile qualsiasi dato. Per fare i calcoli i ricercatori si sono basati sui nati nel 1984 (odierni 39enni) che, in base alle condizioni, andranno in pensione nel 2050, nel 2053 o nel 2057: le tre condizioni sono la pensione anticipata, quindi a 66,3 anni, o per vecchiaia a 69,6 o 73,9 anni.
Seconda premessa: in Italia vige un sistema contributivo, per cui l’assegno pensionistico sarà determinato esclusivamente in rapporto all’ammontare dei contributi versati durante l’intera vita lavorativa.
Considerando i problemi del mondo del lavoro – descritti poco fa – che ogni giovane si trova ad affrontare e in particolare la discontinuità contributiva, tipica di un dipendente medio del settore privato, l’accesso alla pensione anticipata appare un miraggio: nonostante circa 46 anni (!) di contributi, il valore lordo dell’importo pensionistico – di circa 1055 euro divisi in tredici mensilità, corrispondenti a soli 807 euro netti – corrisponderebbe solo a 2,1 volte l’assegno sociale, rapporto che non arriva alla cifra di 2,8 con la quale si accede al pensionamento anticipato. Insomma, andare in pensione a 66 anni sarà estremamente difficile.
Per quanto riguarda i due casi inerenti alla pensione di vecchiaia, la situazione non migliora di molto. Nel 2053 i 69enni andranno in pensione con circa 1249 euro lordi mensili, che al netto ammonterebbero a 951 euro. Nel 2057 invece, posticipando l’uscita dal mercato del lavoro a quasi 74 anni, l’importo si aggirerebbe sui 1577 euro lordi, che al netto dell’Irpef diventano 1099, primo dato sopra ai mille euro e che comunque equivale solo a 3,1 volte l’assegno sociale.
Il divario di genere anche nelle pensioni
Essere donna nel mondo del lavoro è più difficile, è un dato di fatto. Condizioni inique, salari mediamente più bassi (lo abbiamo visto poco fa) e una maggior difficoltà nell’accesso alle posizioni apicali sono solo alcune delle grandi difficoltà che le donne hanno quotidianamente sul lavoro. Tutto questo si traduce in assegni pensionistici strutturalmente inferiori a quelli degli uomini: in caso di – impossibile – pensionamento anticipato, l’importo netto per le donne sarebbe di 737 euro a fronte di 865 per gli uomini; il divario aumenta ancora in caso di pensionamento a 69,6 anni, arrivando a 150 euro per poi scendere leggermente a 99 euro in caso di pensionamento a 73,6 anni.
In conclusione: serve la pensione di garanzia
In sostanza, per descrivere l’attuale dibattito sul sistema pensionistico italiano potremmo fare un parallelismo con la crisi climatica: esattamente come non è a rischio la sopravvivenza del pianeta Terra ma quella degli esseri umani su di esso, non è a rischio l’esistenza di un sistema pensionistico, ma la sopravvivenza (perché, con tali cifre, di questo si parla) degli esseri umani all’interno dello stesso. Non è in questione se domani avremo una pensione, è in discussione in primis quando l’avremo e – nel caso – con quanto ci andremo.
“Alla luce di questi dati, come CNG, continuiamo ancora una volta a rivendicare l’introduzione di una pensione di garanzia per i giovani che preveda strumenti di sostegno e copertura al monte contributivo per i periodi di formazione, discontinuità e fragilità salariale dei giovani. Interventi cui dovranno accompagnarsi, se non si vuole ignorare il rischio di povertà cui sono esposte intere generazioni, modifiche strutturali che consentano un accesso stabile e di qualità nel mercato del lavoro restituendo, peraltro, sostenibilità a un modello previdenziale a scambio generazionale.” commenta Alessandro Fortuna.
Il tema delle pensioni di garanzia è dirimente nell’Italia di oggi, sia per la tenuta sociale che per il futuro stesso del Paese. Da parte nostra continuiamo a rivendicare una misura che possa garantire benessere – almeno il minimo indispensabile per un tenore di vita dignitoso – alla future generazioni. Che possa ridare vita a quella promessa, che funge sia da collante sociale che da dinamo non solo per il sistema pensionistico, ma per tutto il mondo del lavoro.
Riccardo Imperiosi, Direttore Giovane Avanti!
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