Chi sono veramente i Neet nel nostro Paese

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02.09.2024

In che Paese viviamo oggi? Da questa domanda dovrebbe partire ogni ragionamento, pensiero o semplice sentimento riguardante la società e in particolare le nuove generazioni.

L’Italia è un Paese iniquo, precario, ombroso, disilluso e miope, visto che da decenni sta scivolando in una mediocrizzazione inversamente proporzionale allo sviluppo dell’area europea e internazionale di riferimento. E i giovani ne sono lo specchio più fedele. O forse no?

Parliamo qui dei Neet come caso-studio. Intanto partiamo spiegando chi sono i Neet. La definizione di Filippini, Laghi e Ricciari del 2017 ci dice che “sono persone senza segnali amministrativi di istruzione e formazione, ovvero non sono registrati dalle statistiche ufficiali sul lavoro e la scuola”.

Ma troppo spesso – se non sempre – assistiamo ad un’iper-generalizzazione nei loro confronti. Quante volte abbiamo sentito definirli “giovani che non hanno voglia”, “fannulloni”, “viziati”? Siamo sicuri che queste definizioni aderiscano effettivamente alla realtà? Ci siamo mai preoccupati veramente delle condizioni di questi giovani e delle effettive motivazioni che li spingono all’inattività? Siamo sicuri che siano realmente inattivi e che la loro condizione non nasconda un’attività in nero?

La ricerca del Consiglio Nazionale Giovani

Una recente ricerca del Consiglio Nazionale Giovani (Lost in Transition, in collaborazione con IREF) ha preso in esame i casi di migliaia di Neet, fornendo uno spaccato affidabile sulla loro effettiva condizione. I risultati sono molto particolari, soprattutto per quanto riguarda l’effettiva inattività – che in realtà è un’attività nascosta in molti casi – e i due grandi divari territoriali di questo Paese: quello tra Nord e Sud e quello tra aree metropolitane e aree interne.

Il divario Nord – Sud

La prima differenza importante si riscontra nel periodo di persistenza nella condizione di Neet. Alla domanda “Da quanto tempo non cerchi lavoro o un corso di formazione?”, mediamente solo il 36% risponde “più di 6 mesi”: al Sud questa percentuale si alza al 50,7%, chiaro segno dello scarso dinamismo del mercato del lavoro nel Mezzogiorno. Nel Centro (38,2%) e al Nord (circa 30%): qui si hanno numeri notevolmente diversi e un tasso di attivazione superiore.

Ma, come ricorda la ricerca, non dobbiamo considerare solo il mercato del lavoro “visibile”: “in un paese come l’Italia, con quote elevatissime di economia sommersa, il lavoro ‘nero’ è per i giovani attrattivo perché offre risorse economiche immediate”.

L’effettiva inattività: il divario centro-periferie

L’altra grande disparità la riscontriamo tra le aree metropolitane e quelle interne. Guardando sempre alla permanenza nella condizione di Neet, notiamo come nelle prime vi siano molti meno Neet “di lungo periodo”, ovvero che lo sono da più di sei mesi, solo il 28,5%, percentuale che arriva invece al 47,6% nelle aree interne. Discorso diametralmente opposto per quanto riguarda i nuovi Neet: nelle aree metropolitane questi superano i due terzi (71%), mentre nelle aree interne sono circa la metà (52%).

Un’altra differenza sostanziale è il titolo di studio dei Neet: se nelle aree metropolitane sono per lo più laureati, 59%, più il 6% con master o dottorati, nelle aree interne solo il 10% possiede questi titoli, mentre per la maggior parte sono diplomati (58%).

Ed ecco il dato più importante dell’intera ricerca, che rende veramente l’idea di quanto siano effettivamente diverse le condizioni dei giovani all’interno delle città e quelli nelle aree più periferiche, nonché di quanto sia sbagliato generalizzare in una indistinta situazione di inattività.

Nelle aree metropolitane – i cui Neet abbiamo capito possedere titoli di studio più alti –addirittura 9 su 10 (89%) svolgono lavoretti in nero, i cui stipendi per più della metà di loro (54%) sono sufficienti a garantire un’indipendenza economica. Nelle aree interne la situazione è chiaramente molto diversa, e comunque preoccupante, visto che chi ha lavorato in nero è stato il 54% dei Neet.

Stiamo parlando di lavori come baby-sitter e dog-sitter? No, anche di camerieri, barman, operai e lavoratori agricoli, che mediamente solo nel 9% dei casi vengono remunerati talmente poco che “non ci si accorge dello stipendio”.

Perché non ci si attiva?

Fermo restando l’enormità dell’incidenza del lavoro sommerso nei dati che riguardano i Neet, ufficialmente perché quest’ultimi non si attivano?

Anche stavolta permangono diverse differenze in base al contesto socio-ambientale: nelle aree metropolitane la risposta più gettonata (la domanda era a risposta multipla, n.d.r.) è riferita alla scelta di un anno sabbatico (40%), che nelle aree interne rappresenta il 14%; nelle prime il 6% non cerca lavoro perché gli stipendi sono troppo bassi e non ne vale la pena, mentre nelle aree interne il dato sale al 17%; idem per la precarietà dei contratti, che ferma il 4,5% dei Neet nelle aree metropolitane e il 13,4% in quelle interne. Molti (il 19%) nelle aree metropolitane hanno carichi importanti di cura familiare, che nelle aree interne pesano solo per il 6,4%. Infine, per quanto riguarda il problema della sfiducia abbiamo dati abbastanza simili: nelle aree interne, più ricche di opportunità e servizi, il 14,5% ha smesso di cercare perché sa che non troverà lavoro; una percentuale che nelle aree interne si assesta al 21,6%.

Ma quindi chi sono veramente i Neet?

La ricerca dimostra chiaramente che non ha alcun tipo di senso parlare di Neet.

La parola Neet è un’invenzione giornalistica per generalizzare e semplificare un fenomeno molto complesso e frammentato. Non reputiamo forse un ossimoro rilevare come “inattivo” chi lavora in nero? Nel migliore dei casi sarebbe inutile anche dal punto di vista statistico, visto che verrebbero falsati sia i dati sugli inattivi, sia quelli sul lavoro nero.

Oppure chi ha finito un lungo percorso di formazione – abbiamo visto che spesso nelle città i Neet sono laureati o comunque profili high skills – e non riesce a trovare lavoro, perché dovrebbe essere rilevato come Neet?

Ancora, chi privilegia percorsi di autoformazione – il 94% nelle aree metropolitane – ci dice che lo fa tendenzialmente per facilitare la ricerca di lavoro: se qui siamo palesemente in presenza di un’attivazione, perché parliamo di inattività?

Pensiamo a quel giovane su sei nelle aree metropolitane che non si attiva perché ha delle rendite finanziarie e/o immobiliari: possiamo parlare di Neet?

Certo, ci sono molti giovani inattivi, perché sfiduciati dall’attuale mercato del lavoro: la ricerca di un’occupazione di qualità è veramente molto complessa e spesso per accedervi si richiede un’esperienza di molto superiore alle possibilità di un giovane, che pertanto resta nel circolo vizioso del lavoro sommerso o comunque precario e povero. Possiamo biasimarli per la scarsa fiducia? No, assolutamente. Perché accettare occupazioni di scarsissima qualità, inadatte a fornire qualsiasi tipo di indipendenza economica o esperienza curriculare?

Quando non ci sono salari adeguati, stabilità, sicurezza e diritti, quindi quando manca l’occupazione di qualità, fanno bene le nuove generazioni a rifiutare le offerte!

La nostra non è una generazione di “sdraiati”. Se lo fosse non avremmo centinaia di migliaia di giovani che lasciano il Paese ogni anno pur di trovare opportunità migliori all’estero. Non avremmo livelli di lavoro nero importantissimi tra i giovani. Non avremmo ragazze e ragazzi che studiano e lavorano o che preferiscono formarsi a casa da soli pur di trovare un’occupazione dignitosa.

No, non siamo sdraiati. Lavoreremo con le istituzioni e le parti sociali affinché non solo si capisca – a livello di opinione pubblica – il grande fraintendimento intorno ai Neet, ma si riesca a trovare delle soluzioni per risolvere un problema dalle mille sfaccettature.

Un primo passo necessario è aumentare i controlli sul lavoro sommerso e irregolare, così come un monitoraggio delle offerte di lavoro e dei lavoratori assunti in base alla dimensione dell’attività: se, ad esempio, uno stabilimento balneare serve a pranzo mediamente 300 coperti, non può esserci un solo dipendente in sala!

Come UIL abbiamo ribadito il nostro “NO ai lavoratori fantasma”. Una battaglia di civiltà, che mira a rendere dignità e giustizia a migliaia di lavoratrici e lavoratori che, con precarietà e lavoro sommerso, sono di fatto invisibili nel nostro Paese.

La nostra battaglia andrà avanti fino a quando ci sarà anche solo una persona in queste condizioni!

Riccardo Imperiosi, Coordinatore UIL Giovani Toscana

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