TRIGIT E IL FUTURO DELLE PROFESSIONI DIGITALI

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21.06.2023

Riccardo Imperiosi, Direttore Giovane Avanti!, intervista Mattia Aglietti, CEO di TRIGIT. Una  chiacchierata in cui non viene solo fatta una panoramica sull’azienda, ma si discute di  concezione nuova del lavoro, di nomadismo digitale e di intelligenza artificiale.  

Che cos’è TRIGIT? 

TRIGIT è un marketplace, ovvero una piattaforma web. Intanto facciamo la prima distinzione tra marketplace ed e-commerce: l’e-commerce è uno shop online brandizzato dell’azienda, un marketplace, invece, vende i prodotti e/o i servizi di altre aziende sulla piattaforma (come Amazon). Possiamo definirla come una piattaforma che incrocia domanda e offerta di lavoro. Trigit è un marketplace dove vengono venduti i servizi dei nuovi giovani liberi professionisti.

Come nasce l’idea? 

Parlando insieme ai due Lorenzi (gli altri soci, n.d.r.) su cosa mancasse all’interno del mercato, ci siamo resi conto di come mancasse un filtro tra l’essere un professionista affermato e un giovane studente che ambisce a una carriera professionale in questo mondo.  Da lì nasce l’idea di TRIGIT: un marketplace come gli altri, ma dedicato ai soli giovani freelance (sulla piattaforma il limite d’iscrizione è 40 anni) interessati a crescere professionalmente.

Cosa offre la piattaforma e come funziona? 

Le aziende descrivono il progetto che devono realizzare e, dopo averlo pubblicato sul sito, ricevono le candidature dei giovani professionisti in piattaforma. Dopo di che l’azienda sceglie il candidato ideale ed il progetto viene realizzato.

Oltre ad aiutare l’utente a trovare lavoro mettendolo direttamente in contatto con i vari committenti, il giovane riceve l’affiancamento di un tutor professionista, ha accesso a diversi corsi di formazione per migliorare le proprie skills e dei questionari per valutare, con l’ausilio di una psicologa, le proprie soft skills, considerate tra le più importanti nel mondo del lavoro di oggi. Inoltre, la permanenza sulla piattaforma – a dimostrazione del percorso di crescita che intende offrire agli utenti – è permessa solo per tre anni, così da garantire un “ricambio generazionale”.

Credo sia estremamente interessante la parte relativa alla formazione e soprattutto alla certificazione delle soft skills (competenze attitudinali), solitamente molto difficile se non tramite l’ausilio di una psicologa, che al momento sono appunto tra le più richieste dai recruiter. 

Partiamo dal presupposto che sono questionari di simil-autovalutazione, per cui rimane sempre l’aspetto soggettivo. Al netto di questo però, questo tipo di valutazioni serve per creare poi un filtro “tattico” tra quella che può essere una richiesta dell’azienda e noi, così da consigliare e selezionare i migliori profili a seconda della necessità specifica. Sarà una cosa

che arriverà nel prossimo futuro, ma che rivoluzionerà il recruiting nell’aspetto della certificazione delle skills.

Il problema dell’autovalutazione non è da poco però. Faccio un esempio: nella maggior parte dei curricula sono presenti soft skills (solare, propensione al lavoro di gruppo ecc.) che non sempre corrispondono al vero. Come aggirare il problema? 

Esatto. Io ti faccio un esempio pratico: uno sviluppatore tende ad inserire nel curriculum diversi linguaggi di programmazione (HTML, CSS ecc.). Il professionista con vent’anni di programmazione alle spalle, invece, conosce pochi (ma molto bene) linguaggi di programmazione, per cui è molto titubante nello scegliere una persona che dice di “fare tutto”. A questo serve anche la nostra piattaforma, ovvero per aiutare anche il recruiter ad identificare le competenze reali di un giovane candidato. Per questo sono necessari anche il filtro citato poco fa e il tutor con più di dieci anni di esperienza nel settore.

Quello delle professioni digitali è un mondo in cui la stabilizzazione è molto difficile: è piuttosto un eterno limbo tra varie assunzioni (difficilmente definitive), collaborazioni a progetto o commissioni. Che ne pensi? 

In realtà dipende un po’ da tutto l’iter lavorativo del progetto ma il concetto è quello. Uno dei problemi che ha l’Italia è gestire il rapporto tra partita iva e gli occasionali: un social media manager occasionale, che lavora per due/tre aziende e riesce a racimolare due o trecento euro al mese ha molta difficoltà ad aprire la partita iva, ma al contrario non è un rapporto prettamente occasionale, come può essere la collaborazione a progetto per la realizzazione di un logo. Nel frattempo, però è anche molto difficile che sia assunto da tutte le aziende contemporaneamente.

Quindi mi stai dicendo che è un mondo molto complesso, anche per la concezione del lavoro che è fortemente cambiata negli ultimi tempi e che le nuove professioni, quelle digitali, incarnano perfettamente. 

Questo tipo di lavori – come concezione di fondo – sono completamente diversi anche dai classici professionisti (avvocati, ingegneri ecc.). Essi, dopo anni e anni di formazione, devono iscriversi a un albo per iniziare a esercitare. Un social media manager potrebbe iniziare domattina senza alcun problema. Nel termine di libero professionista vengono racchiusi entrambe le categorie, l’avvocato e l’ingegnere, ma anche lo sviluppatore e il social media manager, anche se sono lavori completamente agli antipodi. Le seconde però, sono professioni molto meno normate e regolarizzate delle precedenti citate, che proprio per l’iscrizione a un ordine hanno paletti diversi (ad esempio il codice etico, la deontologia).

Pensiamo a un lavoratore in quest’ambito: se non è assunto e non ha un volume d’affari tale da aprire una partita iva, di fatto rimane senza tutele. 

Assolutamente. Inoltre, le nuove generazioni hanno un motivo specifico, a parer mio, per svolgere questo tipo di professioni: l’idea del nomadismo digitale. Cos’è il nomadismo digitale? È quella idea che permette di continuare a lavorare online pur girando diversi paesi.  Insomma, una sorta di smart working continuativo. Nelle nuove professioni, è molto difficile trovare la concezione del luogo di lavoro fisso.

Verissimo, basta parlare con i giovanissimi per accorgersene. Secondo te la pandemia, in cui è stato completamente sdoganato lo smart working, quanto ha influito? 

Sì e no. La cosa che manca non è la pratica di lavorare online in sé. Nel momento in cui c’è un rapporto di fiducia creato con il tempo tra azienda e dipendente, lo smart working diventa più facile. La cosa, a mio parere, più complicata è trovare lavoro completamente online. La pandemia ha dimostrato che si può lavorare online, ma ancora manca la fiducia per creare nuovi rapporti di lavoro sul web. Oggigiorno, è proprio qui che si individua un grosso gap culturale tra le nuove generazioni e quelle passate, che influisce anche nella concezione – vecchia – dello “stipendio sicuro” in fabbrica e nel mondo dell’innovazione in generale. (ho tolto un po’)

Cambiamo argomento: tu lavori in un campo “minato”. C’è questa grande novità dell’intelligenza artificiale che, pur essendo agli esordi sta andando a impattare su tutte quelle che sono le nuove professioni. Quello che ti chiedo è come, secondo te, andrà a modificarsi il lavoro nei prossimi anni, visto che si presume una crescita sempre maggiore dell’IA. 

Ci sono due prospettive, due scenari che mi sono immaginato. Il primo – quello, secondo me, più plausibile – è che sostanzialmente tutte le intelligenze artificiali diventino uno strumento di lavoro, il più potente, per le nuove professioni: già oggi esistono molteplici campi d’applicazione delle nuove tecnologie in ambito medico, in ingegneria ecc. Per gli strumenti di IA sviluppati sinora serve sempre l’input umano: devi saper scrivere quello che vuoi che la macchina faccia, “parlare la lingua” della macchina stessa. Ciò, è un aspetto che mette comunque al centro di tutto la formazione.

Sostanzialmente è una cosa che governandola, attraverso una forte specializzazione delle professioni perché sennò non la puoi governare, va a diminuire i tempi di lavoro e di conseguenza è considerabile uno strumento per il lavoro, non un replacement di quello che è il lavoratore. La tecnologia considerata come uno strumento che possa sopperire ai difetti dell’essere umano, ma che necessiti comunque di un essere umano per essere governata e utilizzata. 

Esatto. C’è anche da valutare l’aspetto dell’affidabilità e della fiducia. Personalmente, se fossi un medico, non mi prenderei la responsabilità di sottoporre qualcuno ad un’operazione effettuata completamente da una macchina, così come non salirei su un aereo senza i piloti, anche se alla fine c’è il pilota automatico da anni. Alla fine, si deve andare a creare un clima di fiducia attorno a tutto l” ecosistema” intelligenza artificiale che rappresenta la sfida più grande.

Parliamo dell’altro scenario. Cos’hai in mente? 

L’altro scenario – quasi apocalittico – era che l’intelligenza artificiale, come nei film, possa prendere effettivamente campo ovunque. Che sostituisca l’uomo in tutto e per tutto. Se ci fosse la fiducia ed esistesse un computer che riesce a soddisfare ogni bisogno dell’essere umano, perché lavorare? Perché creare un ecosistema basato sul lavoro, se c’è chi può

farlo per noi? È comunque uno scenario totalmente rivoluzionario anche per il sistema economico e per questo impossibile da realizzare: prevederebbe il sovvertimento (o il crollo) del sistema economico che regola il mondo di oggi. Non lo permetteranno proprio coloro che hanno in mano i sistemi di IA, sarebbe come dare ai “poveri” la soluzione per non esserlo più a discapito dei loro stessi guadagni.

Nello spaziare tra tutti questi argomenti traspare un’impostazione dentro di te estremamente umanistica, metti sempre l’uomo al centro di tutto. Potevi fare tranquillamente una piattaforma – come ne esistono tantissime – che vada semplicemente a incrociare domanda e offerta. Invece hai fatto una cosa diversa: una piattaforma incentrata sulla formazione, quasi una piattaforma umanista, perché comunque punti sul percorso e sulla crescita di una persona, mettendola al centro.  

Qual è la cosa che ci spinge ad alzarsi la mattina e rimboccarsi le maniche? I nostri sogni.  Ed i nostri desideri non vengono da una macchina, ma siamo noi che spingiamo a far sì che diventino realtà. È l’umano che si affeziona, ad esempio, ad una piattaforma come Facebook. Se ti ricordi, ai tempi, veniva “venduto” come la piattaforma per tenersi in contatto con gli amici a distanza. Era quello il motivo per cui noi stavamo su Facebook. Era capisci, sempre l’aspetto umano. Non tutta la tecnologia che c’è dietro, non il fatto che ci sia un algoritmo, era semplicemente tenersi in contatto con gli amici, ed è il valore che si crea nella relazione tra uomo e uomo. Insomma, non tutto è incentrato sul profitto, che poi per un’impresa deve pur esserci.

L’ultima domanda, non posso non fartela. Come vedi TRIGIT tra cinque anni? 

TRIGIT tra cinque anni sarà una piattaforma dove le persone, che escono da corsi di formazione/università/master, abbiano un servizio pronto per approcciarsi definitivamente al mercato del libero professionismo. Per farlo serve creare tante sinergie, tante collaborazioni con gli enti di formazione su tutto il territorio italiano e, perché no, all’estero. L’obiettivo è quello di creare una community di giovani talenti dove le persone crescano lavorando, per poi essere affiancate al momento dell’uscita dalla piattaforma.

Grazie mille Mattia per la bella chiacchierata, davvero molto interessante!

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