LA RIVOLUZIONE GREEN È DONNA
17.09.2022
La Green Revolution e l’emancipazione femminile camminano di pari passo, da sempre. Fin dal 1892 quando la chimica Ellen Swallon, prima donna ammessa al MIT, fu anche la prima a usare il termine “ecologia” in senso moderno. Fino ad allora con “ecologia” si intendeva l’indagine del “mondo esterno”, senza considerare l’influenza umana. Con la Swallon, invece, diventava “lo studio di ciò che circonda gli esseri umani nelle conseguenze che produce sulla loro vita”. Quindi si ammetteva l’impatto delle attività umane sull’ambiente, riconoscendo che potevano alterare o conservare i cicli naturali.
La nascita dell’ecofemminismo
La sua ricerca pioneristica, però, cadde nel dimenticatoio e dovette aspettare gli anni Sessanta per tornare alla luce. Infatti, nel 1962 la biologa americana Rachael Carson, partendo dall’analisi degli effetti degli insetticidi, affermò la maggior vulnerabilità delle donne e dei bambini all’inquinamento. La sua riflessione anticipò i contenuti dell’ecofemminismo contemporaneo per cui il dominio sulla natura è distruttivo e affine al sistema di dominio sulle donne. Ma non ci fu solo la Carson. In questo senso, Niccolò Sovico, ideatore e ceo della piattaforma di crowfunding ambientale Ener2crow, ha osservato che le proteste ecologiche hanno sempre avuto protagoniste femminili. La più nota è sicuramente Brigitte Bardot, la diva che lasciò i riflettori del cinema, dedicandosi alla causa ambientale. Con lei e dopo di lei tante altre donne hanno fatto la loro parte.
Le eroine green
Tra di loro c’è Vandana Shiva, fisica ed economista indiana, conosciuta in tutto il mondo come leader dei tree huggers, gli abbracciatori di alberi. È un movimento femminile nato contro la deforestazione dell’Himalaya e contro le monoculture intensive. Per Vandala Shiva, la caccia al profitto non ha fatto altro che provocare debito pubblico e disastri ambientali, soprattutto nei paesi meno sviluppati, come l’India. E allora proprio nel vissuto delle contadine indiane c’è la sensibilità che serve per fermare la distruzione del nostro pianeta.
Come Vandala Shiva, Txai Suruì, classe ‘96, è diventata il volto di riferimento nella lotta contro la deforestazione amazzonica, in Brasile. Vanessa Nakate, invece, ugandese, di 25 anni, fa informazione sul cambiamento climatico dal 2018, quando delle terribili inondazioni misero in ginocchio il suo paese. C’è poi Howey Ou, leader degli scioperi per il clima nella sua città, Guilin, nel sud della Cina, o la ventiquattrenne Disha Ravi, rinchiusa in carcere dopo un tweet ecologista e, ad oggi, l’attivista più influente dell’India.
Donne e finanza sostenibile
Questo attivismo femminile si è presentato anche sul versante imprenditoriale. Le imprenditrici danno prova di una maggiore responsabilità sul tema, coniugando con efficacia le sfide del mercato con la salvaguardia dell’ambiente. Ad esempio, nel settore della Green Economy, stando ai dati dell’International Center for Social Research, i ruoli dirigenziali, o comunque le posizioni di rilievo, nel 58% dei casi sono ricoperti da donne.
In più, un sondaggio realizzato ad agosto 2022, sempre dall’ICSR, ha rivelato che il 53% degli investimenti nella finanza alternativa verde proviene ancora una volta dalle donne. Infine, se consideriamo lo specifico comparto dell’energia sostenibile, le donne sono il 55% del totale degli investitori.
Ma qual è il legame tra femminismo ed ecologia?
Secondo Giorgio Mattironi, cso e co-fondatore di Ener2Crowd nonché chief analyst del GreenVestingForum.it, la risposta sta nel fatto che sono proprio le donne a pagare di più il cambiamento climatico. L’International Center for Social Research, con l’aiuto della World Organization for International Relations, ha rilevato che, a livello globale, l’82% degli sfollati causati da disastri ambientali e guerre sono donne. Sono sempre donne anche il 63% delle vittime delle calamità naturali. O ancora, la coltura intensiva, soprattutto nel sud del mondo, pesa in special modo sul popolo femminile che, privo di proprietà, sopravvive grazie a un’agricoltura tradizionale, meno produttiva e più rispettosa dei tempi e cicli della natura.
C’è quindi un’intima connessione tra condizione femminile e abuso delle risorse naturali. La posizione di svantaggio e subordinazione delle donne le rende più vulnerabili al cambiamento climatico. Perciò sono sempre le donne a schierarsi in prima linea nelle proteste ecologiche. La loro emancipazione sociale ed economica può realizzarsi solo costruendo una società non solo paritaria ma anche ecosostenibile.
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