La pressione scolastica nella società dell’eccellenza

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04.12.2022

Mercoledì scorso un ragazzo ventiseienne di Padova si è schiantato contro un albero. A casa sua i preparativi per la festa erano già iniziati: quello era il grande giorno in cui Riccardo Faggin avrebbe dovuto laurearsi in Scienze infermieristiche. Peccato che quel giorno Riccardo non avrebbe potuto sostenere alcuna discussione, perché era indietro con gli esami. Non doveva laurearsi quel giorno, una piccola bugia in famiglia sul ritardo negli studi si era ingigantita. Non ha retto.

Lo scenario è orribile, ma purtroppo è frequente. A inizio ottobre a Bologna la stessa sorte è toccata a un ventitreenne, morto suicida lanciandosi da un ponte proprio mentre organizzava la sua festa di laurea. Ma sono solo gli ultimi di una serie infinita di ragazzi che non riescono ad affrontare la pressione sociale che gli studi comportano, a maggior ragione se – come è normale che sia – ogni tanto si trova qualche fallimento, errore o ritardo per la strada.

Suicidi e non solo

Oltre duecento giovani all’anno decidono di suicidarsi e una delle maggiori cause sembra proprio essere la pressione scolastica: i presunti fallimenti o “inciampi” nel percorso già di per sé sono un problema per le possibili vessazioni da parte dei coetanei e, soprattutto, per le possibili reazioni della famiglia. Per quest’ultimo motivo tanti dei ragazzi che hanno scelto la soluzione estrema e definitiva avevano prima portato avanti per lungo tempo delle menzogne, fino a quando il peso di queste non li ha schiacciati.

Ma la pressione scolastica non sempre porta al gesto estremo del suicidio, per questo spesso si osservano altri tipi di manifestazioni dello stress eccessivo o comunque di altri disagi: salute mentale, alienazione dalla socialità, distacco familiare, disturbi dell’alimentazione sono tutte conseguenze dei disagi che derivano dal peso delle aspettative.

“Ci hanno abituati non alla cooperazione, ma alla competizione più sfrontata” e ancora “a me e ai miei compagni è stato detto che avremmo dovuto essere i migliori. Per noi non si parlava di apprendimento, ma di addestramento. Per questo anno dopo anno la classe è stata epurata dagli elementi ritenuti più fragili”. A parlare è un ex studentessa sedicenne di un noto liceo romano in una lettera indirizzata all’allora Ministro Bianchi. A questa ragazza l’ambiente liceale ha causato disturbi alimentari seri, è stata ricoverata tre volte negli ultimi tre anni, ma non solo: “il senso di fallimento era così grande che avevo cominciato a pensare al suicidio” aggiunge la ragazza.

La cultura dell’eccellenza

La società in cui viviamo è figlia ormai di secoli di capitalismo imperante, di competizione sfrenata che si trasforma in lotta sanguinaria (il più classico dei mors tua vita mea), di diseguaglianze imperanti che devastano costantemente il tessuto sociale. La società in cui viviamo è semplicemente qualcosa in cui la collettività è stata persa di vista in favore dell’individualismo, in cui ogni singolo individuo deve correre per tutta la vita in una gara truccata e senza senso tra eguali (in teoria).

È ovvio che in questo tipo di società non possa essere presente alcuna concezione equa dell’istruzione e della formazione, piuttosto persiste quella conosciuta come “cultura dell’eccellenza”, una sorta di celebrazione asfissiante del merito – che non lascia spazio all’assistenza di bisogni particolari – che indirettamente comporta una sorta di selezione darwiniana dei più adatti a sopravvivere nello spietato mondo della concorrenza.

In sintesi, chi rimane su livelli di eccellenza è adatto, gli altri che siano gettati dal dirupo spartano. Spesso poi questo prende delle svolte tragiche: quando vengono proiettate le “esigenze” della società sulla famiglia, quando si associano queste pretese della società intera al singolo caso del focolare familiare – posto in cui dovremmo sentirci più al sicuro in assoluto e in cui l’amore gioca un ruolo fondamentale – allora si va incontro alle tragedie descritte prima. In pratica, quando non si considera la reazione della famiglia ai fallimenti come quella più plausibile – non pace, amore e gioia infinita nell’immediato, ma comunque un generale supporto e amore incondizionato – allora tendiamo ad associarla alla reazione che avrebbe l’entità “società” nel suo insieme, che non può essere positiva visto che il fallimento non è contemplato. Il peso a quel punto diventa enorme e la scelta rischia di essere estrema.

A questa narrazione, purtroppo, sembrano contribuire tutti: media, istituzioni, società civile. Non a caso vengono continuamente descritti come casi che dovrebbero corrispondere alla normalità, seppur degni di nota, le esperienze di Carlotta, laureata in Medicina a 23 anni, o di Nicola, laureato in Giurisprudenza a 20 anni. Non c’è da confondersi: i loro sono evidenti meriti ed è giustissimo che vengano celebrati, che vengano applauditi e che a loro siano destinate le opportunità che meritano. Ciò che non è giusto, anzi direi proprio dannoso, è quella narrazione secondo cui questi casi sono normali.

Ognuno di noi, soprattutto in un’età difficile come quella che viviamo al liceo e all’università, ha delle proprie fragilità, insicurezze, i propri tempi per scoprire la propria strada e le proprie passioni. Ognuno di noi ha il diritto di seguire la via che vuole senza che per questo meriti di essere schiacciato dalle pressioni di un ambiente che dovrebbe aiutarti nella formazione umana, per realizzarsi come cittadini all’interno di una comunità. Un ambiente che dovrebbe solo portarci avanti.

Riccardo Imperiosi, Direttore Giovane Avanti!

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