La povertà estrema

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13.02.2023

Stando ai dati della Banca Mondiale, ad oggi circa 900 milioni di persone nel mondo vivono in una condizione di povertà estrema: un dato altissimo, pari all’incirca al 9% della popolazione mondiale totale. La soglia di povertà estrema è stata convenzionalmente fissata nel 2015 a 1,90 dollari al giorno, una cifra che non consente di vivere in maniera dignitosa e accettabile e che spesso costringe a patire la fame e la sete.

Gran parte delle persone afflitte da questa condizione vivono nell’Africa Subsahariana e nell’Asia Meridionale, aree del globo in cui la povertà rappresenta un problema strutturale, stratificato e ormai cronico all’interno della società.

C’è, però, un dato rilevante, sul quale può essere interessante soffermarsi: la stessa Banca Mondiale ha riportato che la povertà estrema nel mondo è diminuita dell’84% negli ultimi settant’anni, cioè a partire dal secondo Dopoguerra.

Questo enorme calo è stato in gran parte dovuto ai mutamenti storici e politici che hanno attraversato, tra il 1945 e il 1990, i Paesi di quello che (un tempo) veniva chiamato Terzo Mondo, per distinguerlo dal Mondo occidentale a guida statunitense e da quello sovietico-socialista. Si è trattata di una vera e propria “rivoluzione sociale”, come l’ha definita Eric J. Hobsbawm, che ha fatto sì che milioni di persone che vivevano negli Stati più poveri del Mondo siano improvvisamente entrate a contatto con la modernità a partire dagli Anni Sessanta del Novecento. È stato un cambiamento senza precedenti, che però a livello culturale e mediatico non ha trovato lo spazio che meritava all’interno delle società occidentali, all’epoca impegnate nel conflitto ideologico con l’Unione Sovietica. Mentre “noi” vivevamo il nostro miracolo economico, in cui poco per volta si stava creando una classe media sempre più robusta e numerosa, nei Paesi dell’Estremo Oriente – in particolare nelle Filippine, in Corea del Sud e in Giappone – e dell’America Latina stava avvenendo un cambiamento di dimensioni mastodontiche, che ha trasformato società tipicamente agricole e ha permesso lo sviluppo di un settore secondario di dimensioni spesso inaudite.

Il fatto che milioni di individui siano passati dal lavorare nelle campagne a diventare operai nelle grandi fabbriche ha avuto ripercussioni negli ambiti più svariati. Sono sorte o si sono ampliate enormi megalopoli, come Rio de Janeiro, Seoul e Città del Messico, in cui le disuguaglianze si mostravano (e si mostrano) in tutta la loro ferocia e lo sviluppo urbanistico è stato spesso gestito in maniera disorganizzata. È aumentato anche il numero di coloro che, spinti dalla volontà personale o da requisiti occupazionali, hanno iniziato ad aspirare non solo all’alfabetizzazione, ma anche a un livello d’istruzione più alto, che fosse superiore o universitario, e ciò ha permesso anche alle masse di avere un’opinione critica e, viene da sé, di iniziare ad organizzarsi politicamente per difendere istanze e valori “di classe”.

Un discorso a parte deve essere fatto per la Cina, un Paese in cui, nel 1981, l’88% della popolazione viveva in povertà estrema, e che in pochissimi anni è riuscito a creare un ceto medio sempre più ampio. Tra il 1981 e il 2016 il governo cinese ha ridotto la povertà estrema del 99,1% (va precisato che la soglia di povertà estrema considerata in Cina è leggermente inferiore a quella della Banca Mondiale): in questo senso hanno agito la maggioranza delle politiche economiche portate avanti da Xi Jinping, volte a garantire alla popolazione quella “prosperità comune” che è parte della “via cinese al socialismo”.

Se, però, analizziamo l’evoluzione globale della povertà estrema, emerge fin da subito che non tutti i Paesi del Mondo hanno attraversato quella fase di “rivoluzione sociale” di cui prima e che anzi in molti di essi la situazione non è cambiata, ma è forse destinata a peggiorare.

Un esempio perfetto è quello dell’Africa Subsahariana: nonostante le Nazioni Unite, già nella fase postcoloniale, avessero parlato di “diritto allo sviluppo” per i Paesi di quest’area, in realtà si è andati incontro a una sorta di “delusione”, come l’ha definita lo studioso di Storia dell’Africa Frederick Cooper. Il dibattito su questo tema, sia tra gli storici che tra gli economisti, rimane particolarmente acceso: c’è chi sostiene che la colpa sia dell’Occidente e di quelle istituzioni economiche, come il Fondo Monetario Internazionale, che hanno gettato i Paesi dell’Africa Subsahariana nell’economia di mercato senza prima garantire lo sviluppo di condizioni sociali e politiche favorevoli, forse a causa dell’ottuso retaggio, sostenuto da alcuni economisti ultraliberisti, che l’economia capitalistica assicuri automaticamente lo sviluppo della democrazia. Altri, invece, ritengono che la causa fondamentale del mancato sviluppo di questi Paesi sia da ricercare nella gestione dei fondi e delle risorse da parte di apparati statali spesso corrotti e dominati da élite di potere.

Nel 2000, un numero della rivista “The Economist” si intitolava “L’Africa senza speranza”. Undici anni dopo, lo stesso giornale aveva come titolo “L’Africa in ascesa”. L’Africa è l’unico Continente che, in futuro, mostrerà una crescita realmente esponenziale della popolazione e ciò, unito alle enormi risorse e opportunità di crescita di cui essa gode, ha fatto sì che le superpotenze (Cina, Russia e USA, in particolare) abbiano iniziato nell’ultimo decennio a interessarsi maggiormente all’Africa. Ma questa “globalizzazione forzata” del Continente ha creato nuovi problemi destinati a far cadere ancora più persone nella povertà estrema. Tra di essi, la “trappola del debito” cinese, la crisi alimentare causata dalla guerra in Ucraina, un’eccessiva vulnerabilità legata all’andamento dell’economia globale (ad esempio, in questi mesi il debito pubblico di molti Paesi africani sta aumentando a dismisura a causa delle politiche monetarie statunitensi) e la crisi climatica.

La lotta alla povertà estrema nel Mondo rappresenta una delle principali sfide della nostra epoca. Essa richiede innanzitutto un ripensamento del sistema economico capitalistico, che lasciato a sé stesso rischia di allargare ancor di più la forbice che separa i super ricchi e i poveri. Il World Economic Forum, tenutosi come ogni anno a Davos dal 16 al 20 gennaio, ha riportato dati preoccupanti riguardo all’aumento delle disuguaglianze in seguito alla pandemia e alla guerra in Ucraina. E, soprattutto, data l’assenza di quasi tutti i leader del G7 – eccezion fatta per Olaf Scholz -, ha messo in luce come la politica abbia ormai perso la capacità di gestire l’economia globale, nelle mani ormai dei miliardari, delle lobby e dell’alta finanza.

In un disordine mondiale dominato da eventi geopolitici destabilizzanti, è quanto mai necessario che gli Stati ritrovino uno spirito di collaborazione e ascolto reciproco riguardo ai temi più importanti, che negli ultimi tempi hanno mostrato un grado di interdipendenza sempre più elevato: la risoluzione dei conflitti, l’azione contro il cambiamento climatico e la lotta alla povertà estrema. Nonostante gli eventi che ogni giorno ci corrono davanti agli occhi siano tutt’altro che incoraggianti, siamo ancora in tempo per agire. Il punto di partenza deve essere l’educazione, la forza motrice delle nuove generazioni: solo avendo il coraggio di criticare e darsi da fare, si potrà cambiare dalle fondamenta la società, per modellare una realtà più equa e giusta.

Alberto Maggi – Testate Sul Banco

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