La pandemia e i servizi per la prima infanzia
10.11.2022
Lavoro e famiglia. Nel mondo velocissimo e sempre più iniquo in cui viviamo oggi, da un lato fortunatamente e da un altro meno, è impossibile per dei componenti di un nucleo familiare concentrarsi prevalentemente su una delle due. Oltretutto anche il supporto alla cura dei figli che potevano dare i nonni, vista l’età in cui si va in pensione ad oggi, va riducendosi. Ed ecco che entrano in gioco i servizi per la prima infanzia, o almeno dovrebbero.
Cosa sono?
Da definizione sono “servizi che, con le famiglie, concorrono alla crescita e alla formazione dei bambini nel rispetto dell’identità individuale, culturale e religiosa, assicurando in modo continuativo l’educazione, la cura e la socializzazione nella prospettiva del benessere psico-fisico e dello sviluppo delle potenzialità cognitive, affettive ed etico-sociali dei bambini”.
Stiamo parlando sostanzialmente di asili: i principali servizi, con alcune differenze nelle varie regioni, sono il nido d’infanzia e lo spazio Bambini per i bambini da 0 a 3 anni, e la Scuola dell’infanzia per i bambini da 3 a 6 anni.
La situazione in Italia
Secondo il rapporto Istat del 2021, al 31 dicembre 2019 (prima del Covid) erano attivi 13.834 servizi per la prima infanzia, circa 500 in più rispetto al 2018, per un totale di 361.318 posti, di cui la metà in strutture pubbliche. Aumento che, grazie a maggiori investimenti e un vistoso calo delle nascite, ha coinvolto anche la percentuale di copertura dei posti rispetto ai residenti da 0 a 2 anni, che è passata dal 25,5% del 2018 al 26,9%. Un dato che però fa capire il decennale ritardo italiano rispetto agli obiettivi e agli altri Paesi europei: il Consiglio europeo svoltosi a Barcellona nel 2002 fissò per il 2010 l’obiettivo del 33%, in Spagna si raggiunge una percentuale del 57,4%, in Francia del 50,8%, in Olanda e Danimarca si supera il 65%. A pesare sono ancora i divari territoriali che attanagliano questo Paese: se nel Nord e Centro la percentuale supera il 30%, in alcuni casi anche superando la soglia fissata dall’Europa, al Sud (14,5 %) e nelle Isole (15,7%) la situazione è drastica. Ad incidere molto è anche la condizione lavorativa della madre: le famiglie in cui la madre lavora usufruiscono per il 32,4% del nido, contro il 15,1% delle famiglie in cui solo il padre lavora.
Il Covid-19
Durante e dopo la pandemia, con rincari, interruzioni di frequenza e chiusure forzate, si è registrato un vistoso calo sia nel numero di servizi, circa 300 in meno rispetto all’anno precedente, sia nel numero di posti disponibili: oltre diecimila in meno. Chi ne ha risentito di più è stato il settore pubblico (- 4,8%) e ciò potrebbe essere relativo alla temporanea inattività dei servizi per l’anno educativo 2020/2021, per un totale di oltre 7 mila posti (di cui il 71,5% pubblici) autorizzati al funzionamento ma non disponibili. Secondo il report “L’effetto della pandemia sui Servizi educativi per l’infanzia in Italia” del Dipartimento per le politiche della famiglia, sono state riscontrate altre criticità in merito allo stress del personale ad affrontare il contatto con i bambini potenziali veicolo di contagio (3,2 su 5, livello indicato come molto critico), al timore delle famiglie ad utilizzare un servizio collettivo (2,9), alla riorganizzazione degli spazi e del lavoro per gruppi stabili (2,8) e al mantenimento degli orari di apertura del servizio con il personale disponibile (2,7).
I nuovi obiettivi
Di recente, in una raccomandazione del 7 settembre, la Commissione europea ha proposto di aggiornare gli obiettivi del 2002 e di fissarne di nuovi in vista del 2030: la soglia da raggiungere è del 50% dei bambini sotto i tre anni che dovranno frequentare servizi educativi di qualità. Inoltre aggiunge che gli Stati membri “dovrebbero incoraggiare un’intensità di partecipazione dei bambini che sia compatibile con una partecipazione significativa dei genitori, in particolare delle madri, al mercato del lavoro”, che “dovrebbero predisporre misure mirate per consentire e aumentare la partecipazione dei bambini provenienti da contesti svantaggiati, compresi i bambini a rischio di povertà o di esclusione sociale e i bambini con disabilità o bisogni speciali” e, infine, che “dovrebbero garantire un approccio globale all’assistenza dedicata ai bambini, facilitando un’assistenza fuori dall’orario scolastico a costi sostenibili e di alta qualità per tutti i bambini della scuola primaria”.
Riccardo Imperiosi, Giovane Avanti
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