FUGA DI CERVELLI
26.03.2023
I dati dell’Istat parlano chiaro: negli ultimi dieci anni sono 74 mila i giovani laureati che hanno lasciato l’Italia per trasferirsi all’estero. Le destinazioni più ambite sono l’Austria, la Francia, il Belgio e la Germania. Si tratta di un numero importante, che ci deve far riflettere, prima di tutto, sulle problematiche che da decenni caratterizzano il nostro Paese sul piano sociale e politico.
Partiamo dalle definizioni. Secondo il Dizionario Treccani di Economia e Finanza, la fuga di cervelli è un “Fenomeno di emigrazione (brain drain) di personale tecnico-scientifico, ad alta qualificazione professionale, verso Paesi in cui vigono migliori condizioni di lavoro e maggiori remunerazioni, soprattutto nel campo della ricerca scientifica.” A differenza del brain exchange e del brain circulation, il brain drain è quindi un fenomeno “a senso unico”, e si può parlare di una vera e propria fuga di cervelli solo nel caso in cui il flusso di capitale umano sia sbilanciato in una sola direzione, come accade nel caso dell’Italia.
Sul piano economico e sociale, la perdita di talenti nostrani è senza dubbio dannosa e questo per diversi motivi. Innanzitutto, essa genera un enorme deficit di capitale intellettuale. Uno dei motivi che più contribuisce alla stagnazione della crescita produttiva dell’economia italiana è proprio il basso livello di qualificazione dei lavoratori italiani, e perdere le risorse umane più qualificate significa perdere capacità di innovare e, di conseguenza, di migliorarsi.
Allo stesso tempo, è importante prendere in considerazione i motivi che portano gli studenti e i ricercatori italiani a “scappare” all’estero.
Il nostro Paese investe ancora troppo poco nell’istruzione, in particolare in quella universitaria: ogni anno, solo una percentuale attorno al 4% del PIL viene spesa in questo settore. Siamo ancora sotto la media dell’Unione europea (5% del PIL), e ciò non permette di mettere in atto quei miglioramenti e quelle riforme di cui il nostro sistema d’istruzione e formazione necessita assolutamente. La conseguenza è che l’Università italiana risulta spesso inadeguata nelle sue scarse capacità di fornire strumenti d’innovazione agli studenti. È un sistema incentrato eccessivamente sul nozionismo, che fatica a adeguarsi alle nuove realtà tecnico-scientifiche, oltre che lavorative. Sotto questo aspetto, è come se esistesse una contraddizione tra un mondo scolastico che cerca di “professionalizzare” i suoi studenti tramite l’alternanza scuola-lavoro e un mondo universitario saldamente attaccato alle sue “tradizioni”, che fatica a considerarsi tramite per il miglioramento della società.
Detto ciò, la causa principale della fuga di cervelli dall’Italia rimane il problema del lavoro. Un lavoro calpestato e umiliato, che va ormai perdendo ogni sorta di dignità. Gli studenti, i ricercatori e, più in generale, i lavoratori altamente qualificati scappano dal nostro Paese perché davanti a loro le prospettive occupazionali sono scoraggianti: i salari sono bassi, le mansioni poco appaganti ed è sempre più diffuso il fenomeno del “brain waste”, per cui lavoratori altamente qualificati svolgono impieghi che non richiedono le competenze che hanno sviluppato e acquisito durante il loro percorso formativo. Di fronte a una realtà così frustrante, è naturale che sorga la necessità di evadere verso altri Paesi che forniscono opportunità più entusiasmanti e maggiori certezze per il futuro.
Cosa hanno fatto i governi che si sono succeduti negli ultimi anni per affrontare la questione ed incentivare i cervelli italiani a ritornare, se non proprio a restare?
Una delle poche misure a riguardo è contenuta all’interno del Decreto Crescita 2019 emanato dal Governo Conte I: esso prevede un sistema di agevolazioni fiscali per lavoratori, docenti e ricercatori dopo almeno due anni trascorsi all’estero. Il Decreto ha fatto passare la percentuale di riduzione del reddito imponibile per i lavoratori dal 50% al 70%, e in effetti dopo la sua approvazione si è generato un consistente afflusso di lavoratori “rimpatriati”. Diversa, invece, la situazione per i ricercatori, con un trend in uscita che è rimasto pressoché invariato.
Sono dati, questi, che ci aiutano a capire come il problema non derivi solo e unicamente dalla forte pressione fiscale del nostro Paese. Ci sono evidenti problematiche strutturali insite in un sistema formativo invecchiato e obsoleto, che lascia spazio alla creatività e alla crescita personale e accademica. È in questa direzione che gli investimenti statali dovranno essere allocati in futuro, se esiste un reale interesse nell’invertire la tendenza all’espatrio.
Il Sole 24 Ore ha riportato che, in media, all’estero i laureati magistrali guadagnano a un anno dalla laurea il 42% in più che in Italia, e che i contratti a tempo indeterminato sono il 51,8% dei contratti totali, contro il misero 27,6% italiano.
In conclusione, risulta quindi essenziale evidenziare il nesso che persiste tra il fenomeno del brain drain e una realtà, quella del lavoro in Italia, sempre più marginalizzata e trascurata dalla politica.
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