Aborto: la storia ci ricorda il dolore e la lotta dei diritti conquistati e ci impone di difenderli nel presente e nel futuro

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18.01.2023

Quando si parla di diritti spesso si dimentica il processo di conquista che vi è dietro, i sacrifici compiuti da chi ha preso coscienza di sé, della sua condizione e del suo ruolo nella società e ha scelto di lottare contro i soprusi e le prevaricazioni. Le scelte politiche degli ultimi anni offrono uno spunto di riflessione: ciò che la destra italiana sta compiendo riporterà la nostra civiltà indietro di molti anni?

Il 13 ottobre 2022, l’Onorevole Gasparri ha depositato la prima proposta di legge contro il diritto d’aborto con la quale vuole attuare il riconoscimento della capacità giuridica del feto in modo da prevenire l’aborto clandestino o legale rendendo, tra l’altro, il processo giuridicamente molto complesso. Tale modifica alla capacità giuridica del feto, sostenuta dalle associazioni antiabortiste, è solo la punta di un iceberg.

Già precedentemente ai fatti del 13 ottobre, Fratelli d’Italia si è espresso al fine di regolamentare la pratica delle varie Associazioni antiabortiste, che approfittando dei vuoti legislativi, prelevavano i feti abortiti dagli ospedali e li seppellivano con i nomi delle proprie madri. Legittimare questa pratica avrebbe significato cancellare legalmente la possibilità di chiedere alle donne il permesso di farlo, violando il diritto alla privacy, il diritto all’aborto e al consenso, alimentando stigmi e ostacolando la libera scelta. Il tutto sotto gli occhi di una popolazione troppo poco reattiva. Inoltre, criminalizzare le donne che praticano l’aborto le indebolisce e le espone al rischio di perdita dei diritti, oltre che all’isolamento e all’emarginazione sociale.

È per questi motivi che è importante conoscere la storia e impegnarsi affinché non si ripeta più, perché dopotutto un diritto conquistato è un diritto che va anche mantenuto.

In Italia, anni fa, l’aborto era una pratica da tavolo da cucina e le donne che non riuscivano ad abortire illegalmente erano costrette a tenere i bambini fino al nono mese di gestazione e ad abbandonarli alla nascita.

Prima della sua abolizione nel 1923, la ruota degli esposti era una bussola girevole dalla forma cilindrica sulla quale ogni anno venivano abbandonati tra i 30 e i 40 mila neonati. Tuttavia, se in passato gli ostacoli per praticare l’aborto erano legati a carenze nel campo medico e tecnologico, oggi la situazione in Italia è alquanto peggiorata per motivi legati all’ideologia politica oltre che religiosa, basti pensare all’aumento degli obiettori di coscienza.

UN PO’ DI STORIA

Fino agli anni ’60 la donna in Italia era soggetta a una politica di controllo e di subordinazione patriarcale, pertanto limitata a ruoli predefiniti. La società era strutturata su base tradizionale, quindi fondata sul matrimonio, sulla buona condotta, sulla morale cattolica e sul disinteresse dello Stato verso tutto ciò che riguardava l’aspetto sociale e familiare.

Il sesso era considerato un tabù, pertanto la sessualità era una prerogativa maschile.

Alla chiusura della Chiesa cattolica si affiancava un’inadeguata legislazione, che non solo vietava l’utilizzo degli anticoncezionali, ma puniva l’aborto con la reclusione da 2 a 5 anni in quanto considerato un delitto contro la sanità e l’integrità della stirpe.

Gli articoli del codice Rocco punivano l’aborto come reato. Solitamente i processi avviati venivano rimandati o non arrivavano quasi mai a un verdetto e quando accadeva le donne venivano assolte sancendo un “perdono” nei loro confronti. Quindi, la legge non assolveva, ma perdonava le donne che rimanevano moralmente criminali.

Le parole di una donna incriminata a Roma nel 1976 sono una lucida testimonianza, nonché una fonte preziosa per comprendere una realtà quotidiana fatta di silenzi e umiliazioni.

La donna racconta: “nel 1972 ho fatto l’ultimo aborto. Mi chiedo se è giusto che lo Stato processi me senza avermi dato niente, per me e per i miei figli e se adesso devo andare in galera lasciando loro e mio marito in quelle condizioni solo perché non potevo metter al mondo il settimo figlio e non avevo i soldi per andare in Svizzera ad abortire”.

I racconti di queste donne sono stati delle vere armi politiche utilizzate per screditare la parte avversa, ottenere consensi e porre sotto gli occhi di tutti la barbarie di quel tempo. Non erano solo racconti individuali, ma racconti che si facevano portavoce di una denuncia collettiva.

L’ABORTO CLANDESTINO

Nell’Italia degli anni ’60 l’aborto clandestino divenne una vera e propria industria costruita sui corpi e sulla disperazione delle donne.

All’inizio degli anni ’70 l’Unesco ha stimato un milione e mezzo di aborti clandestini e 70 milioni di lire di giro di affari annuo per chi li praticava: medici benevoli o infermieri di paese. Talvolta, le donne finivano per imparare a praticarlo da sole esponendosi a operazioni mediche poco sicure che spesso portavano alla morte. Secondo i dati registrati nel 1973 dal movimento Gaetano Salvemini, le donne morte di aborto o di malattie conseguenti ad esso erano circa ventimila all’anno. Le pratiche e gli strumenti maggiormente utilizzati erano di tipo artigianale e consistevano in immersioni in bagni bollenti, stampelle (divenute lo strumento simbolo degli attivisti abortisti), ferri da maglia, stecche di ombrelli che, nel migliore dei casi, provocavano infezioni ed emorragie. Talvolta, per necessità le donne si spostavano e facevano lunghi viaggi verso luoghi malsani e poco sicuri.

Negli anni ’70, il fenomeno dell’aborto clandestino raggiunse livelli così elevati da rendere necessario l’intervento della legislatura. La spinta iniziale arrivò dal partito socialista e dal partito radicale. Il primo a proporre una legge, l’11 febbraio del 1973, fu il socialista Loris Fortuna che esplicava le ragioni eugenetiche per l’interruzione di gravidanza. Anche nel mondo cattolico, alcuni teologi moralisti prendevano posizione seguendo la scia dell’apertura dei gesuiti francesi, entusiasmo bloccato dalla redazione del nuovo documento Vaticano in cui si ribadiva la condanna dell’aborto.

IL MOVIMENTO FEMMINISTA

Dall’altro lato, i movimenti di emancipazione femminile, in particolare il Movimento di Liberazione della Donna e l’Unione donne italiane, proposero per la prima volta la depenalizzazione, la liberalizzazione e la legalizzazione dell’aborto. In alcune città, i primi gruppi femministi organizzarono ambulatori autogestiti, crearono ambienti amichevoli in cui poter eseguire pratiche d’aborto meno cruente, ma pur sempre ancora fuori legge. Tuttavia, il cambiamento era in atto e proveniva soprattutto da coloro che avevano avuto la possibilità di studiare, che vivevano in città, che venivano a contatto con i media, che leggevano i giornali e che andavano al cinema. Una rivoluzione culturale, quindi, cominciò a prendere piede permettendo alle donne di conquistare nuovi spazi pubblici e di esercitare un nuovo ruolo nella società, un ruolo più inclusivo.

LA LEGGE 194

Il 18 maggio 1978, dopo un lungo e tortuoso percorso fatto di negoziazioni, di scontri/confronti fra la sfera politica e religiosa e le varie posizioni all’interno del Parlamento, venne emanata la legge 194 in base alla quale l’aborto, se attuato in determinate condizioni, non era più penalmente perseguibile. In tal modo, per la prima volta, la donna godeva del diritto all’autodeterminazione, un diritto in parte indebolito dal riconoscimento del diritto all‘obiezione di coscienza voluto dalla Chiesa cattolica.

La 194 rappresenta e ha rappresentato il punto di arrivo della lotta femminista in Italia, ma anche il punto di partenza per altre conquiste: a 50 anni dalla legge bisogna ancora lottare affinché l’obiezione di coscienza smetta di limitare un diritto fondamentale che riguarda il corpo e la salute della donna.

La storia racconta le vite e le esperienze passate. I racconti descrivono i momenti, le emozioni e i dolori, rendendo il passato non solo “memoria” di ieri, ma qualcosa di concreto e di realmente vissuto che continua ad avere forza e soprattutto valore nel presente. Il racconto, come denuncia sociale, permette di rivivere un contesto immaginato, di riflettere e di colpire il lettore o l’ascoltatore che sente sulla propria pelle quelle emozioni e che probabilmente sceglierà di agire per difendere il proprio sacrosanto diritto. E allora, bisogna ricordare che i diritti conquistati, raggiunti, sono il frutto di anni di lotte, di negazioni, di dolore e in taluni casi, di spargimenti di sangue ed è per questo che vanno difesi in nome del passato, ma soprattutto in nome e per la tutela del presente e del futuro.

Elena Iuliano, Officina Civile

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