L’erede. Teofilo Patini, Olio su tela, 1880
09.01.2024
L’ opera, come le altre della “Trilogia sociale” di Patini (“Vanga e latte” e “Bestie da soma”) è ispirata alla vita misera e tragica dei contadini dell’Appennino meridionale e in particolare, in quest’ultimo caso, ad un episodio realmente avvenuto a Castel di Sangro, paese natale del pittore.
In un miserabile “sottano” l’autore vide, di persona, la scena straziante rappresentata sulla tela: un povero contadino morto giace su un mantello scuro lacero e sporco, la testa è appoggiata ad un sacco da campagna, le gambe nude e divaricate, del colore della morte, fuoriescono dal misero “sudario” che non riesce neppure a coprire del tutto il cadavere.
Le scarpe gli sono già state tolte: sono troppo preziose per essere seppellite col morto; accanto, la portantina metallica usata per il trasporto dei cadaveri e un piccolo unguentario; alle pareti un’ immagine sacra e pochi attrezzi da lavoro: una zappa e un falcetto.
Il tema del “compianto” funebre della tradizione classica della pittura italiana, è ben presente all’ Autore che, di fatto, porta ad assimilare alla figura del Cristo deposto, quella di un “povero Cristo” delle campagne abruzzesi. In questa “Imago Pietatis” non è presente la Madre ma la compagna del morto in lacrime che, accasciata dal dolore, appoggia il capo su di una cassapanca rustica, sulla quale è presente una povera conocchia per filare la lana. Accanto a lei, il figlioletto neonato, seminudo (l’erede!) che, inconsapevole della tragedia, gioca con una cipolla.
La miseria dell’abitazione è evidenziata dal colore ocra “sporco” dell’intonaco, dalla rusticità del pavimento in gran parte sconnesso, dal graticciato a destra, che una volta, forse, ospitava un asino o una capra, ma che, al presente, è inesorabilmente vuoto; dal camino spento, senza legna e con la cenere fredda in evidenza.
Una culla di cenci, un vinto che non sa di esserlo
Il neonato, che, come un Bambinello del presepe, giace nudo su una “culla” fatta di cenci, gioca con la cipolla, simbolo delle fatiche paterne senza adeguata, sufficiente ricompensa: quella cipolla sembra proprio la sua unica eredità, l’unico retaggio possibile per il piccolo che appare qui come l’ultimo anello della catena sociale dei diseredati o dei “vinti” alla quale, per il momento, non sa di appartenere.
“Erede di che?” – scrisse il pittore in occasione dell’Expo internazionale di Milano del 1881, in cui l’opera venne presentata e premiata. “Erede di sofferenza e di miseria, manifestazione pura e semplice della realtà che mi circonda”.
L’ opera vuole essere, dunque, secondo i canoni del Realismo/Verismo, una rappresentazione oggettiva delle miserabili condizioni di vita delle plebi rurali dell’Italia appenninica, divenute ancora più tragiche e intollerabili, se possibile, all’ indomani dell’Unità.
La delusione cocente subentrata alle speranze coltivate dalla generazione dell’Autore, che aveva partecipato ai moti insurrezionali e alle battaglie garibaldine, per il trattamento riservato al Meridione, sfocia, da parte dell’Artista, in una presa di coscienza della situazione, in un deciso impegno sociale e in un’adesione ai valori del Socialismo umanitario.
Teofilo Patini, Presidente della Società Operaia dell’Aquila
Nel 1888 Teofilo Patini divenne Presidente della Società Operaia dell’Aquila, per la quale, tra l’altro, organizzò il primo Congresso Regionale Operaio.
La pittura diviene il suo strumento di impegno e di lotta a sostegno delle popolazioni rurali oppresse, a fianco del nascente movimento operaio organizzato, del quale condivide l’impegno politico e sociale.
Il pittore, con la sua arte, vuole dare testimonianza di questa cruda realtà e lo fa aderendo al “vero”, senza filtri e preconcetti; ma anche ispirandosi dal punto di vista compositivo e stilistico ai grandi autori del Realismo storico e contemporaneo: al Caravaggio, con la scelta dei cromatismi scuri e del plasticismo forte ma anche alla sua predilezione per il pauperismo; prima ancora, al Mantegna, nella scelta di impostare la scena sul corpo del morto con i piedi in primo piano, visto dall’inusuale prospettiva con la quale il Mantegna aveva rappresentato il suo Cristo sulla “pietra dell’unzione” della Galleria di Brera; al contemporaneo Honoré Daumier, con il cadavere in primo piano, seminudo, della famosa litografia dedicata al massacro della “Rue Transnonain”, episodio della cruda repressione dei moti popolari durante il regno di Luigi Filippo del 1834.
Un’auspicabile rinascita
La tragicità della scena è mitigata dall’ aspetto vitale del neonato: il suo sguardo rivolto verso l’alto, la sua vitalità, nonostante tutto, possono essere interpretati come un segno di speranza in una possibile rinascita. Il Bambino, insomma, per il Patini, può guidarci verso l’abbandono del cupo pessimismo verghiano della teoria dei “Vinti” senza speranza di redenzione e, al contrario, essere, una volta spezzate le catene della miseria e dell’oppressione, il simbolo di una possibile, auspicabile Rinascita.
L’opera si trova a Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea.
Licia Lisei, Prof.ssa di Storia dell’Arte
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