Per un nuovo sistema fiscale internazionale

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02.08.2024

Nel 1985, l’aliquota media mondiale dell’imposta sul reddito delle società era al 49%; da quel momento è progressivamente diminuita fino a giungere all’attuale 23%. Ogni anno, più del 35% dei profitti delle grandi multinazionali viene dirottato verso “paradisi fiscali”, cioè Stati a fiscalità agevolata che permettono alle imprese di pagare tasse in misura molto ridotta rispetto a quelli dove hanno la propria sede operativa. Ciò si traduce in una perdita pari a 600 miliardi annui per le entrate fiscali degli Stati dove quei profitti vengono in effetti prodotti. Al crescere dei profitti delle grandi aziende, non è cresciuto il gettito fiscale. Al contempo, le diseguaglianze all’interno delle nostre società sono in aumento così come una più ampia conflittualità causata dalla sempre maggiore incapacità dei Governi di dare adeguate risposte alle esigenze dei cittadini. Gli Stati si trovano a dover fare i conti con sempre più stringenti parametri di finanza pubblica che si traducono in tagli orizzontali della spesa in welfare, nell’istruzione pubblica e nella sanità, ossia a quegli elementi che nel corso del secolo breve sono stati strumenti di promozione di una società più equa e inclusiva. Inoltre, la sfida posta dalla doppia transizione, ecologica e digitale, accompagnata da una transizione sociale, necessita di ampi investimenti pubblici, al contempo attraendo quelli privati. In un tale contesto, gli Stati sono chiamati ad un ripensamento globale del sistema fiscale internazionale per adeguarlo alle esigenze della modernità e alle sfide future.

Si poggia proprio su tale retroterra l’accordo sull’introduzione di una tassazione minima globale per le multinazionali, stipulato nell’ottobre 2021 tra 136 Paesi, sotto l’egida dell’OCSE. Lo storico compromesso si compone di due Pilastri: il primo – Pillar one – affronta la questione dell’allocazione degli utili prodotti, prevedendo che i profitti siano tassati in quei Paesi dove le corporation svolgono l’attività; il secondo – Pillar two – prevede l’introduzione di un’aliquota fiscale minima globale al 15%, con l’intenzione di dissuadere le imprese dal dislocare la propria sede fiscale verso Stati in cui la tassazione è minima o nulla.

L’accordo si pone l’ambizioso obiettivo di operare un’ampia redistribuzione delle entrate fiscali, muovendole dai Paesi dove le grandi multinazionali hanno la loro sede fiscale verso quelle giurisdizioni in cui operano e producono profitti. Questo avrebbe dovuto de facto superare l’odierno sistema fiscale internazionale, il quale si basa su un compromesso del 1920 raggiunto tra gli Stati che facevano parte della Lega delle Nazioni e la cui ratio era quella di evitare una doppia imposizione per le aziende che operavano in Paesi diversi. La teoria classica della fiscalità richiede un nesso materiale con la giurisdizione che impone la tassazione. D’altro canto, la globalizzazione, e soprattutto la rapida crescita dell’economia digitale, ha reso più difficile tale connessione fisica, consentendo alle aziende un maggiore tasso di elusione fiscale.

Il compromesso mediato dall’OCSE è la storia di un naufragio

Il compromesso mediato dall’OCSE è la storia di un naufragio. Per come è stato pensato il perimetro di applicazione del Pillar one sarebbe ristretto alle 100 multinazionali più ricche al mondo e solo ad una frazione dei loro profitti, venendo a generare un’entrata tra i 9 e i 22 miliardi di dollari annui, una cifra irrisoria se comparata agli effettivi profitti. Mentre il Pillar two con la presenza di un’aliquota massima al 15% non sarà un rimedio alla concorrenza fiscale sleale tra Stati. Inoltre, l’accordo rischia di non entrare in vigore a causa della mancata ratifica dell’intesa da parte della Cina e soprattutto degli Stati Uniti, i quali ospitano la maggior parte delle società interessate. Difatti, seppur l’amministrazione Biden aveva siglato l’accordo in sede OCSE, questo va ratificata dal Senato, il quale – secondo la Costituzione – prevede l’innalzamento del quorum in caso di trattati internazionali; servirebbe, quindi, l’approvazione di due terzi dei 100 componenti della Camera alta. I democratici controllano il Senato con una maggioranza semplice di appena 51 senatori, mentre per il passaggio della legge di conversione avrebbero bisogno di 67 voti; difficilmente troveranno sostegno tra le file dei repubblicani, specie con un possibile ritorno alla Casa Bianca dell’ex Presidente Trump.

Rimane, quindi, l’attuale l’esigenza di delineare un nuovo sistema fiscale globale che dia una risposta alle distorsioni generatrici di diseguaglianze sempre più pervasive che minano la coesione sociale e minacciano gli assetti democratici.

Come ricorda il premio Nobel, Joseph E. Stiglitz, non esiste una valida ragione perché il livello di tassazione sul lavoro sia ben più elevato rispetto a quello sul capitale. Condividendo questo tipo di ragionamento, la UIL ha sin dall’inizio sostenuto l’introduzione di una global minimum tax, seppur considerandola solo un primo passo verso un sistema fiscale più equo. Inoltre, riteniamo che l’OCSE sia la sede politica più adatta a favorire un accordo a livello internazionale per l’introduzione di una tassazione sulla totalità delle transazioni finanziarie (TTF). Secondo un’analisi commissionata dal Parlamento europeo nel lontano 2011, quando a livello europeo si iniziò a parlare di Tobin tax, un’aliquota simbolica dello 0.01% sugli scambi finanziari sarebbe stata in grado di generare 57 miliardi di euro annui. In Italia, uno studio UIL-Eures stima che un’aliquota pari all’1 per mille comporterebbe un introito aggiuntivo di 9 miliardi di euro l’anno.

La fuga continua delle multinazionali dalla loro responsabilità fiscale

Negli ultimi quarant’anni, la globalizzazione ha permesso alle multinazionali di fuggire dalla propria responsabilità fiscale, ossia dal pagare una giusta percentuale di imposte sui profitti generati, permettendo una redistribuzione delle ricchezze. Politiche economiche di beggar thy neighbour (impoverisci il tuo vicino) hanno dato vita ad una concorrenza fiscale al ribasso tra gli Stati. L’affermarsi di una visione neoliberale dell’economia ha ridotto l’intervento dello Stato sui mercati, non consentendogli di correggere le storture generatesi. Bilanci finanziari sempre più modesti hanno ridotto la capacità di investimento nello stato sociale da parte dei Governi e ciò ha acuito l’iniquità all’interno delle società contemporanee. Tutte queste sono scelte politiche, quindi, come tali reversibili. Toccherà metterci mano, riformando il sistema fiscale internazionale e pretendendo che le multinazionali, produttrici di enormi profitti, siano tassate in modo più equo.

Dipartimento Internazionale UIL

 

 

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