Salari al palo: un problema di sistema
28.07.2023
In Italia non si guadagna abbastanza. Arrivare a fine mese è una meta sempre più lontana. Lo sa bene chi lavora ma non riesce a riempire il carrello della spesa. E lo sa bene anche l’OCSE. Nel report Prospettive dell’Occupazione 2023 ha calcolato che nel 2022 i salari fissati dai contratti collettivi sono diminuiti in termini reali di oltre il 6%. Un calo preoccupante considerato che “a differenza di altri Paesi, la contrattazione collettiva copre, in teoria, tutti i lavoratori dipendenti”.
È l’ennesimo campanello di allarme sulla questione salariale che rischia di rimanere inascoltato. Forse perché si parte dal presupposto sbagliato. La retorica che associa il lavoro povero solo a fattori contingenti è fuorviante. Sicuramente la pandemia e la guerra hanno innescato un domino micidiale su prezzi, mercato del lavoro e stipendi. Tuttavia, queste variabili interdipendenti non sono sufficienti a risolvere l’equazione lavoro-povertà.
Limitarsi a spiegazioni di breve periodo significa guardare in superficie. Quando, invece, serve scavare più a fondo. Bisogna riavvolgere il nastro di circa 30 anni. L’arco di tempo in cui, secondo Openpolis, in Italia gli stipendi non solo non sono aumentati, ma sono addirittura diminuiti. Il nostro, infatti, è l’unico paese europeo che dal 1990 ha registrato una decrescita dei salari del 2,9%.
SALARI in ITALIA : conta la TOTAL FACTOR PRODUCTIVITY
Un problema, ahinoi, strutturale. Gli economisti parlerebbero di Total Factor Productivity, cioè della produttività totale dei fattori. Un concetto teorico che descrive la porzione di produttività (output) non spiegata dai fattori quali il capitale e il lavoro (input). Un metodo, quindi, che misura l’efficienza di un sistema economico, considerando l’influenza di elementi come il funzionamento della pubblica amministrazione, la qualità della forza lavoro e il livello di innovazione e ricerca.
In altre parole, per un buon rendimento, della singola impresa o dell’economia tutta, utile a sostenere i salari, servono tecnologie all’avanguardia, formazione professionale e una burocrazia agevole. Presupposti che in Italia mancano o vacillano, senza rimedi all’orizzonte.
A predominare è la rigida ortodossia economica che, nella corsa alla produttività, si concentra solo su quella del lavoro. Eppure, la TFP insegna che questa non è sufficiente. Ad esempio, dovrebbe ottenere uguale attenzione lo stato in cui riversa la pubblica amministrazione. Perché non esiste crescita, senza infrastrutture. E non esistono infrastrutture senza uffici e personale pubblico messo nelle condizioni di lavorare. Poche risorse e troppi precari rendono il nostro paese un pachiderma burocratico lento, complesso e inefficiente. Di conseguenza, per nulla attrattivo agli occhi di chi fa impresa. Soprattutto per il fattore tempo. In Italia si spendono 312 ore l’anno per compilare documenti e richiedere bolli o certificazioni. Il peggio avviene nel Mezzogiorno, dove il monte ore sale a 1200. Per questo, nei report annuali della Banca Mondiale, registriamo punteggi bassi sull’ease-of-doing-business index: perché la burocrazia non aiuta, anzi ostacola soggetti e processi di crescita.
Ne abbiamo avuto la riprova con l’attuazione del PNRR. Scadenze non rispettate e progetti che arrancano sono proprio dovuti anche a una pubblica amministrazione non all’altezza. Le soluzioni sono presto dette: stabilizzare i precari, assumere nuovi tecnici e riqualificare il personale, con investimenti adeguati alla sfida del Next Generation.
ISTRUZIONE E FORMAZIONE
Il tema della formazione, però, non vale solo per i funzionari pubblici. In generale, la qualità della forza lavoro – il cosiddetto capitale umano – è un altro elemento decisivo per la tanto agognata produttività. Vale a dire che l’economia, e gli stipendi, si reggono altresì sul livello di istruzione e formazione di chi lavora. Tanto è vero che l’OCSE ha stimato un impatto dell’istruzione sul PIL di Francia, Germania e Stati Uniti del 0,5 %. Su questo versante entra in gioco la necessità di una scuola pubblica che funzioni e garantisca, da Nord a Sud, gli strumenti di emancipazione culturale ed economica alle nuove generazioni.
Un altro obiettivo mancato dal nostro paese. Lo dimostrano, purtroppo, i dati Istat e OCSE. Vediamone alcuni. Nel 2021, in Italia, la spesa pubblica per l’istruzione era il 4,1% del Pil, stando sotto la media UE del 4,9%. Nel 2022, i giovani tra i 18 e i 24 anni che abbandonavano precocemente gli studi erano l’11,5 % e al Sud salivano al 15%. Nello stesso anno i NEET – chi non studia né lavora – tra i 15 e 29 anni hanno sfiorato il 20% della popolazione, la percentuale più alta in Europa. Infine, gli italiani e le italiane che tra i 24 e i 34 anni hanno un titolo universitario sono solo uno/a su tre, collocandoci sotto la media OCSE del 44%. Numeri sconfortanti che, comunque, non esauriscono le cause dei salari bassi.
INNOVAZIONE
All’elenco va aggiunto un ulteriore vettore di crescita che è lo sviluppo tecnologico. Mezzi all’avanguardia e innovazioni di processo rientrano a pieno titolo tra i coefficienti della TFP. Ma anche stavolta abbiamo non pochi problemi. Secondo alcuni, per difetti di natura sistemica. L’industria italiana è una galassia di piccole o medie imprese a conduzione familiare che hanno rendimenti e dimensioni inferiori ad aziende simili in altri Paesi. Questo perché fattori culturali e finanziari, come la resistenza al cambiamento o la difficoltà di ottenere credito, hanno impedito di investire nella ricerca.
Ciononostante, l’analisi non può fermarsi qui. Perché anche aziende più grandi – non solo in Italia – non investono in innovazione, sebbene abbiano tutte le carte in regola per farlo. Per molti economisti, la motivazione sta nella scelta di indirizzare le strategie industriali su obiettivi nel breve termine, trascurando quelli di lungo periodo. Nel concreto, cioè, le imprese tendono a destinare una quota crescente dei profitti non alle innovazioni di processo, bensì all’acquisto di azioni proprie per incassare i dividendi. Mazzucato e Jacobs parlano quindi di “finanziarizzazione delle imprese” come principale causa del declino degli investimenti privati, come pure del crack del 2008. A detta loro, ribaltando i canoni neoclassici, deve scendere in campo uno Stato imprenditore (altro che “minimo”), che sappia incentivare strategie industriali lungimiranti, per una crescita più stabile e duratura.
REDISTRIBUZIONE CONTRO LA RECESSIONE
È doveroso poi sottolineare che tutti i fattori elencati si riferiscono a strutture e poteri finalizzati alla produttività, a sua volta intesa come leva per aumentare i salari. Ma, c’è un ma. Nel nostro paese i salari rimangono al palo pure quando oggettivamente il PIL cresce.
E l’arcano è fin troppo conosciuto. Non c’è redistribuzione della ricchezza, o perlomeno non abbastanza. Stando ai dati Istat sulle CONDIZIONI DI VITA E REDDITO DELLE FAMIGLIE negli ANNI 2021 e 2022 quasi un quarto della popolazione è a rischio di povertà o esclusione sociale e nel 2021 il reddito delle famiglie più abbienti è 5,6 volte quello delle famiglie più povere. Numeri che cristallizzano una forbice sociale da ricucire il più presto possibile. In effetti, molti economisti, come Stiglitz, hanno provato il legame tra aumento delle disuguaglianze e rischio di recessione. Perché se la ricchezza si concentra nelle mani di pochi le conseguenze sono disastrose. Il ceto medio sparisce, la domanda del mercato crolla e con questa la produttività, in un effetto a catena simile a quello degli anni ’30 o del 2009.
SALARI IN ITALIA: una questione complessa
Dunque, il quadro della questione salariale italiana è piuttosto intricato. Mette insieme i problemi nostrani con le storture del liberismo più estremo. La via d’uscita si può trovare avendo il coraggio di intraprendere una politica economica, nazionale ed europea, depurata dalla teoria economica neoclassica. Il laisser faire, laisser passer non funziona. Serve uno Stato Sociale che indirizzi i mercati, garantisca la redistribuzione e una crescita sostenibile. Perché se lasciata libera, la mano invisibile per l’ennesima volta, si ritroverà con un pugno di mosche.
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