CONTRO IL RAINBOW WASHING: NIENTE PROFITTI SUI DIRITTI
28.06.2023
È la notte tra il 27 e il 28 giugno del ‘69 quando allo Stonewall Inn di New York, irrompe la polizia. Gli uomini in divisa fanno l’ennesima retata nel bar gay del Greewich Village. Ma stavolta c’è chi dice no. Sulla scia dei moti sessantottini e al grido “Gay Power”, una folla di oltre 2000 persone oppone resistenza.
Iniziava così il movimento di emancipazione omosessuale. Ed oggi, ad oltre mezzo secolo di distanza, quella battaglia non è ancora vinta. Per questo, a giugno, la comunità arcobaleno celebra il coraggio di Stonewall festeggiando il pride month. Trenta giorni di iniziative e cortei che colorano le città di tutto il mondo. Un’onda favolosa che travolge i rigidi confini dell’eteronormatività e crea terreno fertile per una società più inclusiva.
Il mese del pride, quindi, è un appuntamento collettivo, una ricorrenza di grande portata che smuove masse, ma anche interessi.
Cos’è il rainbow washing
La causa gay, non a caso, polarizza, stimola il dibattito pubblico. In altre parole, influenza il mercato e c’è chi non si fa scrupoli ad approfittarsene.
È la logica del cosiddetto rainbow washing: la strategia di marketing che presenta un brand come gay friendly, senza che l’azienda sostenga effettivamente i diritti lgbt. Loghi arcobaleno, merchandising o prodotti ad hoc per il pride, a volte, non sono altro che una sterile tattica di posizionamento. Sono un metodo di manipolazione dei consumi finalizzato ad attirare il consenso – e le scelte di acquisto – delle persone lgbt o dei loro alleati.
Inoltre, non mancano casi nei quali non solo l’impegno era apparente, ma per giunta controverso. Ad esempio, hanno fatto notizia le grandi multinazionali che promuovevano raccolte fondi a sostegno della comunità arcobaleno, continuando a produrre in paesi autoritari e profondamente omofobi. Non sono passate inosservate neanche le plateali campagne di comunicazione lgbt poi smentite da dichiarazioni di CEO e Manager tutt’altro che gay-friendly.
La ricerca di eMarketer
Eppure, chi si occupa di marketing dovrebbe sapere che le persone sanno riconoscere quando il messaggio di un brand è autentico o meno. Di conseguenza, sanno individuare il rainbow washing. Il pubblico ha ormai maturato una maggiore consapevolezza delle dinamiche di comunicazione e marketing delle imprese. Ha gli strumenti culturali e sociali per distinguere, approfondire e accertare la reale posizione di un brand, non cadendo facilmente nei suoi tentativi di persuasione. Negli Stati Uniti, lo ha provato una ricerca di eMarketer in cui la metà degli utenti online intervistati ha dichiarato di considerare contenuti e campagne lgbt come puro opportunismo.
Ad ogni modo, il rainbow washing non è dannoso solo per la reputazione delle aziende. Perché l’ipersensibilizzazione può svuotare di significato e potenza il mese del pride. Un uso improprio di bandiere e simboli ne vanificano l’efficacia. In sintesi, il ricordo di Stonewall rischia di ridursi a una scontata abitudine, priva di carica politica.
Vie d’uscita
Un cambio di rotta è possibile con imprese adeguatamente informate e rese sensibili al tema. Lo ha ribadito alla stampa in occasione del Gay Pride di Milano il senatore Ivan Scalfarotto, fondatore nonché presidente onorario di Parks, l’associazione senza scopo di lucro che aiuta “le aziende socie a realizzare al massimo le potenzialità di business legate allo sviluppo di strategie e buone pratiche rispettose della diversità”.
In effetti, ai brand colpevoli di strumentalizzare la comunità arcobaleno, se ne affiancano altrettanti totalmente indifferenti al problema. Sempre Scalfarotto ha ricordato i numerosi amministratori delegati restii ad associarsi. Dal loro punto di vista era difficile comprendere perché avrebbero dovuto occuparsi di sessualità in azienda. A questa frequente obiezione, il fondatore di Parks ha spiegato di rispondere evidenziando la dimensione pubblica e non privata della questione. Riportando le sue parole: “Quando un dipendente, il lunedì, racconta ai colleghi come ha trascorso il weekend, rivela apertamente la sua eterosessualità: “Sono stato da mia suocera, sono andato al parco con mia moglie e i bambini, ecc…”. – quindi – L’orientamento sessuale non riguarda tanto la sessualità, quanto la vita». Parafrasando: sui luoghi di lavoro, trans, omosessuali, bisessuali e chiunque non rientri nei canoni dell’eteronormatività non gode della stessa libertà dei propri pari.
Questo malessere si paga in termini di turnover e produttività, come testimoniato dalle ricerche sugli enormi benefici (anche economici) delle politiche di inclusione. La discriminazione si paga e non conviene davvero a nessuno.
Ecco perché nelle imprese più all’avanguardia iniziano a comparire nuovi profili professionali come il/la Diversity Manager: la figura che progetta e realizza buone prassi per valorizzare la diversità in uffici e fabbriche. Un ruolo volutamente generico, o meglio intersezionale, affinché la sua azione non sia limitata alla tutela di una sola minoranza. La sfida di un/una Diversity manager, infatti, è far emergere e interagire tutti i livelli della discriminazione (età, disabilità, genere, orientamento etc) operando in modo tale che siano pienamente superati. È un obiettivo complesso e di lungo periodo per cui occorrono perseveranza e competenza. Solo con innovazioni in tal senso si può davvero dare voce al grido di Stonewall. Un logo colorato, invece, non sarà mai abbastanza.
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