Lavoro e diritti LGBT+: la discriminazione si paga

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17.05.2023

Marco – nome di fantasia – è un giovane HR specialist. È puntuale, competente e il suo lavoro sa farlo bene.  Per i colleghi è l’amico su cui contare. Per i piani alti, la risorsa su cui scommettere. Non gli manca davvero nulla per fare carriera, tranne che esserne felice. Perché Marco è gay e preferisce che non lo sappia nessuno. 

Il problema dell’inclusione

Non è il solo. Come lui, il 61,2% delle persone LGBT occupate o ex-occupate nasconde il proprio orientamento sessuale sui luoghi di lavoro. Lo fanno a ragion veduta. Tra chi fa coming out, il 41,4% ha rivelato che il proprio orientamento sessuale è stato uno svantaggio negli avanzamenti di carriera e nel riconoscimento delle proprie capacità. Ma, soprattutto, circa 8 persone omosessuali o bisessuali su 10 hanno subito almeno una forma di micro-aggressione sui luoghi di lavoro, con espressioni offensive, avance non desiderate o domande inopportune. Altrettanto gravi sono gli episodi di svelamento del proprio orientamento sessuale da parte di altre persone (outing) che riguardano oltre il 31% dei lavoratori e delle lavoratrici omosessuali. 

La discriminazione si paga

A lanciare l’allarme è una ricerca dell’ISTAT, condotta lo scorso anno in collaborazione con l’UNAR, che non lascia spazio a interpretazioni. In Italia c’è un problema di inclusione che non tocca solo le persone lgbtqia+, ma l’economia tutta. 

Da alcuni anni, infatti, si sono moltiplicati gli studi che misurano le ricadute su PIL e produttività delle discriminazioni di genere e sessuali. E morale della favola: i pregiudizi costano caro.

Innanzitutto, in termini di turnover, perché escludere persone significa perdere talenti. Tanto è vero che il 34% delle lavoratrici e dei lavoratori lgbtqia+ ha deciso di dimettersi per il trattamento ricevuto. In più, non tutti possono fare una scelta tanto drastica. Perciò, molto spesso, si preoccupano del minimo indispensabile, senza impegno o entusiasmo, incrementando il fenomeno del quiet quitting. Anche così le perdite non sono da poco. 

Our leadership, network globale per l’inclusione delle persone LGBTQIA+, ha provato a calcolarle. Contando una popolazione non etero nel mondo di 266 milioni di persone ha stimato che, se effettivamente integrate nel mercato del lavoro, porterebbero a un aumento di oltre 3 punti percentuali del PIL globale. 

A simili conclusioni è giunta anche una ricerca finlandese della Aalto University School of Business e dell’Università di Vaasa. Osservando l’andamento dei profitti di ben 650 aziende, ha rilevato una migliore reputation e utili più alti nelle imprese impegnate in politiche di inclusione. Discriminare, quindi, non conviene. Ma neppure il vantaggio economico è stato abbastanza per estirpare l’omotransfobia. 

La tutela della legge

Per questo rimangono vitali degli strumenti legislativi a tutela delle persone lgbt sui luoghi di lavoro. Purtroppo, nel nostro paese sono arrivati decisamente in ritardo. Ad esempio, solo nel 2021 è stata inserita all’articolo 15 dello Statuto del ’70 la specifica, tra le altre, del divieto di discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale. Allo stesso modo un decreto legislativo del 2003 e una legge del 2010 avevano stabilito la parità di trattamento nel mondo del lavoro anche per le persone LGBT. Infine, la legge del 2016 sulle unioni civili ha permesso il riconoscimento di diversi diritti del lavoratore o della lavoratrice omosessuale: come il congedo matrimoniale, la reversibilità della pensione o le detrazioni fiscali per i familiari a carico. 

Il quadro normativo diventa più lacunoso quando i pregiudizi colpiscono le persone transgender. L’unico riferimento è una sentenza della Corte di Giustizia Europea che ha sancito il diritto di non discriminazione sia sul sesso che sull’identità di genere. A livello nazionale, invece, non abbiamo ancora norme o disegni di legge che tutelino esplicitamente lavoratori e lavoratrici trans. Perciò la giurisprudenza, finora, ha optato per un’interpretazione elastica del principio di non discriminazione fondato sul sesso, previsto dal D. lgs. N. 198 del 2006. Inutile dire che non basta. 

La forza del Sindacato

Ma dove non arriva la legge, può arrivare il sindacato, grazie agli accordi integrativi. In questo senso, si possono citare alcuni esempi virtuosi come i Protocolli di intesa firmati da CGIL CISL e UIL nel 2014 con DHL e Intesa San Paolo. In entrambi i casi, infatti, i sindacati confederali, in netto anticipo sulla politica, sono riusciti a ottenere il riconoscimento del congedo matrimoniale e, nel secondo, anche le provvidenze economiche garantite per i parenti con handicap grave. Sempre il sindacato, poi, in azienda o sul territorio, può essere il primo interlocutore quando l’ufficio o la fabbrica diventano luogo di violenza o discriminazione.  

Cambiare si può. Certo è faticoso. Richiede tempo, sforzi e tenacia. A volte incassando sconfitte che gettano nella rassegnazione. Ma finché, migliaia di persone, come Marco, non avranno il diritto di lavorare senza paura, bisogna proseguire su questa strada. 

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