L’imperativo di un lavoro di qualità

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04.05.2023

Sembrano passati secoli – ma nei fatti parliamo di pochi decenni – da quando le identità dei lavoratori erano “compattate dalla produzione di serie e dalle prestazioni standardizzate che per decenni hanno avuto il loro epicentro nella grande industria meccanica”.

Trasformazioni tecnologiche impetuose, affermazione dell’economia dei servizi, globalizzazione dei mercati, continue crisi economico-finanziarie, aumento della precarietà occupazionale e per ultimo la pandemia non hanno di certo reso il lavoro umano inutile e marginale.

Seppur spogliato della sua carica “ideologica”, il lavoro rimane il baricentro della vita, ma la precarizzazione – accompagnata troppo spesso da bassi salari – ha di certo contribuito ad una sua svalorizzazione.

Oggi, inoltre, pare si stia assistendo anche ad una crisi dello stesso paradigma della subordinazione, che tende a modificare l’approccio dell’individuo al suo lavoro, generando nuovi fenomeni di non facile decifrazione. I quali pongono la sfida di ripensare modi e metodi di produzione: cambiamenti che si preannunciano sempre più necessari, in un mondo dove – a dirla come R. Sennett – “forze profonde […] stanno deregolando l’esperienza del tempo delle persone”.

Il valore del lavoro sembra correre sempre meno di pari passo con la sua importanza soggettiva. Ecco allora arrivare dagli USA, e trovare radici anche in Italia, il fenomeno della Great Resignation: ovvero, un significativo aumento del numero di lavoratori dipendenti che lascia in maniera volontaria il proprio posto di lavoro. Oppure, constatare l’emergere del Quiet Quitting, cioè l’abbandono silenzioso, in cui i dipendenti sono disposti a svolgere solo lo stretto indispensabile. Un abbandono non fisico, ma sostanzialmente motivazionale verso il proprio incarico.

Un fenomeno di ’”appiattimento” che non risparmia affatto anche i giovani. Anzi!

In Italia, secondo una ricerca di Workplace Intelligence il 74% dei dipendenti Millennial e Generazione Z sarebbe intenzionato a lasciare il posto di lavoro entro la fine dell’anno, a causa della mancanza di opportunità di sviluppo delle proprie competenze e, di conseguenza, della propria carriera professionale.

Una dispersione di talenti, con detrimento personale di chi sente il suo lavoro svalorizzato, ma anche con perdite importanti per le imprese. Le quali, però, non sembrano ancora particolarmente attrezzate per strategie di “talent internal mobility”. Come riferisce Francesca Verdario, manager di Zeta Service Individua, “questi processi sono molto sottovalutati” dalle aziende, le quali – secondo uno studio internazionale ripreso da recruiter.com – si troveranno quest’anno di fronte il 41% dei dipendenti che chiederà un cambio di ruolo”.

Inoltre, solo un dipendente su tre si sentirebbe incoraggiato nel ricoprire nuovi ruoli all’interno del suo contesto aziendale e solo uno su cinque sente la libertà di poter discutere liberamente con il suo responsabile rispetto alla possibilità di un cambiamento.

Stando a quanto si evince da una ricerca di Workest, due aziende su tre affermano che mantenere i dipendenti in azienda risulta più difficile che assumerne di nuovi. Non a caso solo due dipendenti su dieci si sentono coinvolti nel proprio lavoro.

Indicativi anche i dati relativi al timore dei lavoratori di non rimanere competitivi sul mercato del lavoro. Workplace Intelligence stima che il 78% dei dipendenti non ritiene di avere le competenze adeguate ad avanzamenti di carriera. Mentre il 58% sarebbe preoccupato rispetto a competenze acquisite e, ormai, ritenute obsolete. Sette lavoratori su dieci si sentirebbero impreparati ad affrontare il proprio futuro lavorativo.

Siamo di fronte a segni di crescente insoddisfazione per il lavoro svolto, che si sommano però all’emergere di una tensione verso una migliore qualità della vita di lavoro. E in questo discorso non va espunto il problema del lavoro povero o comunque sempre più impoverito, che di certo non garantisce quanto stabilito dalla Costituzione, secondo cui – e vale la pena sempre ricordarlo – il lavoratore ha diritto a “una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.

Affrontiamo quella che viene definita la IV rivoluzione industriale, che tanto si gioca sul versante del digitale. Ciò porterà ad una modifica delle modalità produttive e del lavoro, lontano dalle logiche del “lavoratore massa”, totalmente definito negli standard di modalità di esplicazione della prestazione. Ma rimane la centralità della forza lavoro. Come rimane l’indispensabilità dell’ organizzazione collettiva:  il miglior architetto del nuovo lavoro, perché capace di protezione e di evoluzione. In una parola sola: di progresso.

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