Caro benzina: le speculazioni sono il vero problema?

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16.01.2023

A fianco dei fan di Elvis o dei Beatles andrebbero messi anche gli amanti della discussione circa i prezzi dei carburanti, un evergreen di successo da una trentina di anni a questa parte. Stavolta il Governo ha perso 18 centesimi a zero perché ora tutti sembrano concordi sul fatto che il taglio degli sconti sulle accise abbia portato un aumento corrispettivo.

A valle però andrebbero fatte delle considerazioni.

Chi è stato favorito dagli sconti sui carburanti?

La prima: i calcoli dicono che lo sconto delle accise sui carburanti ha impegnato qualcosa come 9 miliardi di euro, di cui solo 3 (elaborazione Sky Tg24 su dati PNB) a favore delle fasce più deboli. Detta così tutti a gridare allo scandalo, ma i numeri resi in assoluto non funzionano se letti da soli. In verità i costi del carburante incidono per il 6% del reddito disponibile sulle fasce più deboli (il 20% della popolazione) e man mano che si sale nella fascia più agiata gli stessi costi incidono per il 2% (ricerca Università Bicocca, Paolo Maranzano, 2022). Quindi quei 3 miliardi sono stati un aiuto per le fasce più deboli.

Secondo: gli sconti sulle accise sono di fatto anche uno sconto sul prezzo finale di generi di prima necessità, come il cibo, i cui costi incidono in modo più esorbitante sui ceti medi e quelli bassi. E quindi il taglio delle accise ha avuto un effetto secondario importante. Oppure no? E qui la parola speculazione sarebbe stata interessante da usare, ma Governo e opposizione sembrano un attimo dimenticarsene.

Inflazione e speculazione

L’Italia ha registrato un aumento dei prezzi a dicembre 2022 su base annua del 12,3%. Nonostante il consistente taglio delle accise il nostro Paese è stato tra i peggiori in Europa, dove la media dell’aumento dei prezzi è del 9,3%, con la Germania a +9,6%, Francia a +6,7%, Spagna a +5,6% (dati ISTAT ed EUROSTAT).

La curva di rilevazione dei prezzi alla pompa racconta una decisa flessione o moderazione nel nostro Paese sul fronte dei prezzi dei carburanti. Ma è finita lì. I prezzi sullo scaffale dei prodotti non hanno mollato la presa, nonostante il calo stabile dei carburanti. Una situazione così anomala che ha spinto addirittura a ipotizzare di imprese che hanno “nascosto” i loro prodotti al consumo per mettere sotto pressione i prezzi.

Accise sì o no. Un falso problema?

Terzo: a questo punto il problema forse non è neanche se togliere o meno le accise sul carburante. Sì, certo, la pressione fiscale sul carburante è alta in Italia ma – fermandoci ai famosi 9 miliardi di euro impiegati per gli sconti – la domanda è: adesso che ritornano nelle casse dello Stato, cosa vogliono farne? Forse verranno usati per compensare i minori introiti da contributi per i voucher lavoro. Oppure permettere un drastico taglio delle tasse su rendite e profitti. Peccato, perché 9 miliardi potrebbero ad esempio da soli rimettere a nuovo la metà delle case popolari italiane che così vedrebbero un 50% in meno di consumi energetici per il prossimo ventennio e un grande vantaggio per chi ci abita, non esattamente miliardario (fonte studio Gianluca Ruggeri, università Insubria). Potrebbero permettere un taglio interessante alle tassazioni sugli aumenti dei rinnovi contrattuali (fermi a decine). Ma non andrà così, inutile girarci attorno.

La speculazione esiste (ma non c’entrano i benzinai)

Quarto: cosa vogliamo fare veramente con la speculazione? Il caso del petrolio è emblematico perché certe reazioni smodate del mercato sono una finzione spettacolare e niente più. Solo un crollo improvviso dei giacimenti dovrebbe portare il petrolio a 124 dollari al barile, come è accaduto.

Avete mai sentito parlare del picco di Hubbert? È un modello scientifico secondo cui il picco della produzione di greggio era stato raggiunto negli Anni 70 (il modello si basava sulla produzione negli Usa). Poi arrivarono nuovi giacimenti, nuove tecniche di estrazione e la data continua a slittare. Quindi, niente panico da risorse al termine. Cosa rimane?

Forse la semplice considerazione ci dice che non è più possibile affidare asset strategici ai mercati, tanto più in un’epoca come questa, di profonda instabilità e competizione economica feroce. L’esempio più lampante è proprio il rapporto tra quotazioni del petrolio e l’andamento dei prezzi alla pompa (decisi dalle compagnie, non certo dai benzinai). A febbraio 2022 con l’aggressione russa all’Ucraina i prezzi del barile sul cosiddetto indice Brent ((indice Brent, Londra)) di colpo presero il volo, a marzo toccarono i 130 dollari al barile per poi precipitare a 90 dollari nel giro di appena 5 giorni. Strano modo di reagire alla paura di una totale mancanza di greggio. L’altalena è andata avanti per poi calmarsi. Eppure, la guerra non si era fermata, anzi, si era inasprita.

È il mercato, bellezza

Non è tutto. Quando si compra petrolio sui due mercati di riferimento (l’altro è il WTI statunitense) in verità si sta comprando il petrolio a 1/2 mesi; quindi, il prezzo del petrolio il giorno 1° gennaio è quello che verrà adottato l’1 febbraio/1 marzo. Le compagnie petrolifere sul mercato italiano non hanno mai aspettato i 30/60 giorni per applicare gli aumenti, questi sono sempre arrivati prima, quindi carburanti in salita e prezzi reali di acquisto precedenti alla guerra.

Quando negli Anni 90 il nostro Paese decise che tutto andava venduto e messo sul mercato mise sul piatto anche le società di estrazione, trasporto e distribuzione dell’energia. Ci dicevano che il “mercato” e la “concorrenza” avrebbero costretto tutti a praticare prezzi più bassi perché avrebbero dovuto fare i conti con il pubblico. Secondo voi, come è andata?

Francesco Leitner, Sindacato TV

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