Paolo Buchignani: La spilla d’oro – Memorie da un secolo sterminato, Arcadia Edizioni
20.12.2024
Passato per alcuni decenni attraverso i labirinti storici del Novecento, Paolo Buchignani, docente di Storia Contemporanea e importante studioso del periodo che va dall’Ottocento alla Seconda Guerra Mondiale (tema trattato in saggi sempre sollecitanti e dalla critica sicura e acuta), da qualche anno si sta cimentando con la narrativa, rivelando anche in questo caso pregevoli doti di scrittore estroso, ricco di sentimenti e dotato di una potenza a volte altamente drammatica.
Quest’ultima prova, La spilla d’oro (Arcadia, Roma 2024), è un romanzo storicamente strutturato, che attraversa il Novecento, raccontando alcuni momenti salienti che hanno segnato quel secolo. Il protagonista è una voce narrante, Lapo, personaggio autobiografico e letterario, che con la Spilla d’oro della nonna Esterina (voce, memoria, nume tutelare e musa ispiratrice che racchiude e trasmette al nipote il senso umano del passato) si esercita a forare il nebbioso contesto umano e civile del ventesimo secolo, non appagato da quanto la semplice ricerca storica può offrire: egli, cioè, si sforza di recuperare anche l’aspetto intimo e segreto dei fatti umani e quelle nobili passioni nelle quali esplode la drammatica pienezza del vivere, quando le forze tempestose della storia e del destino richiedono un urto fecondo, una resistenza all’incombenza del male.
Il percorso memoriale di Lapo si concentra essenzialmente su due spazi – il primo è Lucca, con una frazione poco distante dalla città, Santa Maria dei Colli, l’altro è Firenze – e inizia riportandoci ai contrasti tra socialisti e interventisti, prima della Grande Guerra, alle prime avvisaglie nazionaliste, al grande dibattito interno al Socialismo e all’affermarsi del Fascismo, con le violenze squadriste, che divengono sempre più cruente, soprattutto dopo il delitto Matteotti. Questi eventi risuonano e rivivono nel mondo lucchese, nelle scene che hanno come protagonisti innocenti popolani tra cui il nonno di Lapo, ferventi di ideali socialisti, o grandi intellettuali come Pascoli e Papini, frequentatori del famoso Caffè Caselli, a Lucca. Risalta la città con le sue vie un po’ severe, il suo prestigioso passato, un lavorare quotidiano, una povertà dignitosa, una moralità che ne alimenta e arricchisce il segreto sottosuolo. L’anima di Lapo vibra soprattutto quando può parlare dei personaggi e delle vicende della sua Santa Maria dei Colli, il piccolo borgo coi domestici rumori rituali, i profumi e gli odori della campagna, le deboli luci delle case, col suo sole luminoso e con figure semplici, dalla psicologia poco complessa, ma ricche e dolenti, impregnate di nobili sentimenti e di forza vitale.
Come si accennava, lo storico diventato narratore va proprio cercando quella dizione interiore delle cose che la nuda storia non gli aveva ancora dato: la letteratura quindi diviene il fragile ponte che collega la verità offertaci dalla Storia al suo segreto invisibile, cioè a quella verità ulteriore (umana), quel “di più”, la “quarta dimensione”, che essa appunto, con i suoi strumenti, può darci.
Attraversando questo ponte, Buchignani si accosta al senso profondo dei fatti: alle ragioni misteriose della rabbia tedesca, che si scatena con stragi e violenze, culminanti nell’eccidio di quarantaquattro individui alla Certosa di Farneta, oppure all’anima delle vittime e dei carnefici, ai sentimenti che li fecero agire. Da una parte fioriscono luminosi esempi di autentica umanità e di spiritualità cristiana, strumenti di orgogliosa resistenza, coraggiosi nel fronteggiare la Storia in una sfida a volte ultimativa, quindi religiosa e salvifica; dall’altra spuntano figure dall’impietosa e terribile torbidezza, dove l’abisso pauroso delle forze inconsce si esprime in una cultura di invasamento fanatico, che educa alla anestesia morale, al vuoto emotivo, alla mancanza di senso di colpa, ed esalta il trionfo vendicativo e il disprezzo dell’altro.
Se nelle vicende e nei protagonisti legati al mondo lucchese scopriamo le memorie dell’io autobiografico, ispirate dalla voce di nonna Esterina e dalle memorie del padre Orlando o della madre Anna, nel mondo fiorentino si esalta invece l’io letterario che ricostruisce fantastici quadri del contesto intellettuale degli anni Trenta, quando Firenze era veramente la capitale culturale d’Italia. Emergono così le figure di Maccari, Soffici, Rosai, Pratolini, Montale, Vittorini, Ricci, Gallian, e soprattutto Bilenchi, che di questa parte diviene la guida morale e culturale di Lapo, vero mentore della formazione intellettuale del giovane (così come lo è stato per lo stesso autore).
Qui Lapo ricorda i fermenti culturali all’interno della cultura fascista, in quegli “intellettuali inquieti”, lacerati tra le tensioni rivoluzionarie anticapitalistiche del loro fascismo giovanile, che fantasticava una rigenerazione della società e che credeva alle buone intenzioni del primissimo Mussolini, e la dolorosa delusione del tradimento di un fascismo, che da movimento si era trasformato in una vera dittatura. Anche in questo caso, l’autore, letterariamente animato, coglie lo sgomento di questi intellettuali, l’inganno scandaloso che, dopo averli fatti passare dall’esaltazione ideologica ad un fascismo in penombra, li condurrà sul fronte comunista: bellissimo, a questo proposito, il sofferto scandaglio interiore, che porterà Bilenchi su posizioni comuniste.
In maniera superficiale si può parlare di romanzo storico; in realtà si tratta di un’opera polimorfa dove l’intreccio narrativo, contiene un dinamismo di forme che si associano nella compatta struttura del discorso letterario: si tratta di digressioni storiche, documenti, pagine trattatistiche, pause meditative, elementi memoriali e riflessioni autorali. Questa mescolanza di elementi che costituiscono la polimorfia del testo si riflette anche nei modi enunciativi: gli elementi memoriali, legati alle voci narranti di alcuni personaggi (da nonna Esterina a Romano Bilenchi) si esprimono in una prosa visiva e precisa, dove la vitalità e la solidarietà col prossimo si traducono nei gesti e nei sentimenti, mentre qua e là balenano ricordi o momenti folgoranti; gli elementi documentaristici sono soprattutto quaderni e scritti di personaggi, recuperati da Lapo, che hanno vissuto gli anni bui del fascismo e hanno lasciato traccia delle loro esperienze in pagine sofferte, dove scolpiscono con dura e precisa plasticità toscana il senso di inquietudine e il tormento della loro esistenza; gli elementi storici provengono dalle ricerche d’archivio che Lapo compie e, pur nel testimoniare il tempo in maniera sanguigna, mantengono il tessuto verbale classicamente intonato, proprio delle pagine da cui traggono alimento; infine le riflessioni autorali dello scrittore, che, identificandosi e sdoppiandosi in Lapo, rispecchia nel pensiero del suo “alter ego” il proprio percorso intellettuale e umano, si concentrano in un discorso vibrante e perentorio, dove i profondi strati del sottosuolo culturale dell’autore si distendono in una procedura linguistica e realistica, che fonde in un sintetico flusso discorsivo la problematicità e la varietà delle considerazioni.
La narrazione di Buchignani non è quindi quella obsoleta dell’otto-novecentesco romanzo storico, ma una costruzione a mosaico, per accostamento e incastro: non è tanto il risultato di una trama ordinata, di casi geometricamente accordati tra loro, ma un processo soggettivo di rielaborazione della memoria storica, documentaria e investigativa di un soggetto (anzi di una coscienza) che cerca di capire il mondo e scoprire il senso della Storia.
L’autore ha costruito un testo originale, che l’apparenta ad opere quali, ad esempio, Il sorriso dell’ignoto marinaio, di Vincenzo Consolo (1975), sia per la struttura composita e irregolare, sia per la figura di Lapo, assai simile al consoliano Enrico Piraino di Mandralisca, che nel narrare ricercando diviene la “coscienza della vicenda”: egli è il raccoglitore dei documenti, delle voci, delle memorie locali, è uno spirito anelante alla conoscenza – “curiosus et discendi cupidus” – che si affida ai suoi studi , alla ricerca e alla voce di alcuni mentori per conoscere e riflettere sulla sfuggente complessità dell’ordito storico, trasformandosi da narratore in coscienza. La sua quindi diviene una visione critica, non commemorativa del passato: tra lui e le cose narrate c’è sempre il senso vigile dell’intelletto, che lo fa reagire e resistere alle chimere di un facile ed estetizzante memorialismo (proprio come nell’opera del Consolo).
Questo non significa però che Lapo non partecipi alle vicende del romanzo: egli è “rapito dalle ombre di un tempo remoto”, ma non naufraga mai in una vertigine di ricordi, perché sempre in lui insorge la volontà critica e riflessiva. Il “rapimento” permette tuttavia ai documenti di “caricarsi di un vissuto nuovo: il lavoro scientifico si sposa coi volti, coi ricordi, con le sofferenze e l’indignazione dei testimoni di quel travagliato periodo” (p. 133). Questo breve passo può ritenersi la poetica del Buchignani, che è appunto la fusione di “studio” (lavoro scientifico) e “memoria” attraverso la “commozione”, ossia quel partecipare anche con lo spirito e con l’anima al vissuto che lo studioso e il memorialista stanno recuperando: una poetica in cui l’intimismo della “poetica della memoria” si coniuga con l’intensità descrittiva della “poetica storico-sociale”.
È proprio questa “commozione” – il “cum-moveri”, “vibrare insieme” – che permette all’autore di creare pagine memorabili dove le scene si arricchiscono di valenze e di significati ulteriori e la realtà si trasforma in mito, in gesto o simbolo, sublimandosi in pura oggettività epica. Un esempio stupendo è la processione di San Cataldo, a Santa Maria dei Colli, nel maggio 1919, quando la cerimonia viene bloccata da un gruppo di comunisti rivoluzionari che inneggiano alla Russia dei soviet. Allora avviene lo scontro epico tra due giganti: Spartaco, il capo rivoluzionario, e il Professor Remo, il gigante mutilato (dalla Guerra Mondiale) che con sicurezza e coraggio controbatte le teorie di Spartaco, mostrando una ben diversa verità sulla Russia. Scena emblematica, che raffigura lo scontro tra due mondi, incarnati da due figure eccezionali, per cui l’evento “particulare” si eleva a forma assoluta, diviene “universale”, simbolo di un drammatico momento storico.
Un’altra scena iconica è nel brano Intellettuali inquieti e descrive il definitivo distacco tra Bilenchi e Ricci, un divorzio politico che porterà il primo al comunismo, mentre l’altro rimarrà ancorato al suo ideale, cioè al sogno della rivoluzione sociale fascista. Dopo anni di un percorso comune, i due intellettuali, grandi amici, si congedano, abbracciandosi fortemente e giurandosi però eterna amicizia. È una scena triste, dolorosa, ambientata in una Firenze piovosa, plumbea, in una stanza invasa dal fumo delle sigarette che Bilenchi continua ad accendere e a schiacciarne le cicche nel portacenere: tutto sembra andare in fumo, tutto gronda tristezza, tante illusioni sfumano facendosi vapore caliginoso.
Dopo il ventennio mosso e procelloso della morte della libertà, della dittatura, delle guerre, della faticosa ricostruzione italiana, purtroppo i drammi della storia continuano: come scrive Giorgio Caproni, “Fa freddo nella storia”, e non si riferisce al primo, bensì proprio al secondo Novecento. Così nell’ultima parte del testo viene presentato sinteticamente il dopoguerra: dalle elezioni del 1948, con il nuovo scontro tra le forze politiche uscite vincenti nella lotta antifascista, per passare poi a rilevare una nuova insurrezione dei movimenti rivoluzionari, nel clima della strategia della tensione. E tutto si chiude, purtroppo, con le dolorose derive dittatoriali – da quelle dei Colonnelli di Grecia a quelle “nere” dell’America Latina o “rosse” nei paesi sovietici -, che ancora una volta sembrano testimoniare l’irredimibilità della Storia.
Su tutto questo “freddo” della storia, brilla però una speranza, che è il calore della “comunità”. Oltre a “studio”, “memoria” e “commozione”, “comunità” è la quarta parola costituzionale del testo. Essa rappresenta un cronotopo, un luogo tipico, in questo caso il borgo di Santa Maria dei Colli, dove gli affetti e i rapporti umani si alimentano nella consonanza di sentimenti, gesti, odori, nella luminosità delle sere estive come nei giorni ventosi della primavera, dove la vita trascorre secondo rituali ricorrenti, dove la morbida felicità di esperienze umane fondamentali e irripetibili, divengono paradigmi di conoscenza e sono così vicine alle scaturigini della poesia.
Il cronotopo del borgo e della sua “comunità” rappresenta un tempo mitico, metastorico, nella sua iconica emblematicità di sentimenti e di comportamenti, un tempo in cui all’equilibrio della paura determinato dalla volontà di potenza, tipica del tempo storico, si sostituisce l’equilibrio della fiducia e della sincerità degli affetti. Contro il tempo storico, emblematizzato dagli orrori e dalla morte (il libro, tra l’altro, è suggerito dall’evento di una nuova peste, il Coronavirus), sta la resistenza di un altro tempo, quello della “comunità”, con la continuità delle generazioni che resistono e durano contro gli insulti del destino e della storia: una comunità dove l’idea di “comunione” e di “religio” significa veramente legarsi e unirsi in nome del chiarore di una fede che, incuneandosi tra il nero del fascismo e il rosso del comunismo, si presenta come la forza fondativa di verità eterne e consolatorie.
Paolo Vanelli
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