POVERA INSICUREZZA
17.10.2022
Insicurezza è la parola d’ordine della società contemporanea.
Lo smantellamento (ancora in atto) dei sistemi di welfare solidali e collettivi è, ormai, riconosciuto essere l’atto scatenante di una crescente precarizzazione delle vite dalla maggioranza delle persone che sono, dunque, costrette a “vivere pericolosamente”.
Se si considera, infatti, il significato distinto della nozione di “pericolo” da quella di “rischio”, dove la seconda indica la probabilità che un evento si concretizzi in una minaccia reale, i sistemi di protezione sociale riuscivano ad assicurare la necessaria protezione della popolazione dagli eventi pericolosi: disoccupazione, malattia, isolamento e abbandono familiare. La loro smobilitazione, invece, ha eroso il perimetro di difesa della società contro i rischi, che diventano così pericoli al punto che oggi ogni emergenza (sociale, sanitaria, migratoria, ambientale, climatica, economica, energetica, ecc.) si trasforma rapidamente in crisi.
Con l’indebolimento del welfare pubblico, tutta la struttura della società si è riordinata nel segno del pericolo e della precarietà e il rischio diventa un lusso di chi possiede un’ancora di salvataggio, una rete di sicurezza, un sistema privato di protezione individuale alla quale la maggioranza della popolazione ha sempre meno possibilità di accedere. In assenza di un sistema sanitario pubblico efficiente, come dimostrato drammaticamente dalla pandemia di COVID-19, il rischio di ammalarsi diventa il pericolo di non poter ricevere le cure necessarie, quindi di morire, a meno che non si abbia un’assicurazione privata; in assenza di un sistema di previdenza sociale, non essere iscritti a un fondo pensione privato diventa pericoloso nel momento in cui sopraggiunge la vecchiaia o la disoccupazione; in assenza di politiche familiari, la povertà assoluta è un pericolo incombente per i nuclei familiari numerosi, oltre che per i minori e gli stranieri, come dimostrano i recenti dati pubblicati dall’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT). La lista dei “pericoli della modernità” è drasticamente molto lunga.
Da questa prospettiva, le società occidentali contemporanee risultano essere società pericolose caratterizzate da una forte domanda di protezione dai pericoli sociali.
Il sentimento di insicurezza della popolazione rispecchia la reale precarietà della vita delle persone e dei gruppi sociali incapaci di dominare i cambiamenti che le continue crisi trascinano con sé. Si sancisce in questo modo il ritorno delle “classi pericolose”, come definite dal sociologo Robert Castel, che si trovano costantemente in una situazione di estrema vulnerabilità dal momento in cui le crisi non sono più un’eccezione ma diventano la normalità, nel senso che la maggioranza della popolazione (soprav)vive in uno stato di emergenza permanente perché la propria esistenza è continuamente minacciata dal pericolo di ammalarsi, di perdere il posto di lavoro, quindi il reddito, la casa, i propri risparmi.
Realizzato il progetto politico neoliberale di regolare l’intera società secondo l’ordinamento dell’economia concorrenziale di mercato, la realtà stessa si è riorganizzata sulla convivenza di una minoranza di “vincitori”, che assicurano la propria esistenza, e la maggioranza di “perdenti” la cui vita rimane scoperta da qualsiasi forma di protezione, dunque sospesa tra il rischio e il pericolo.
Lo status economico si impone, dunque, come una questione di vita e di morte, nel senso che la povertà si afferma come pericolo principale che attenta la vita delle persone.
Il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti sociali, economici e culturali, infatti, definisce la povertà come quella << condizione umana caratterizzata da privazione continua e cronica delle risorse, capacità, scelte, sicurezza e potere necessari per poter godere di uno standard di vita adeguato ed altri diritti civili, culturali, economici, politici e sociali >>.
Il legame tra povertà, dunque precarietà delle condizioni di vita, e mortalità, oltre ad essere oggetto di numerosi studi, è una realtà che risulta palese sia dal confronto tra i dati sull’aspettativa di vita della popolazione nei paesi ricchi e quella nei paesi poveri del mondo, dove i primi registrano un valore maggiore rispetto ai secondi; sia dall’analisi disaggregata del dato sull’aspettativa di vita della popolazione all’interno di un medesimo paese, dove gli individui più benestanti possono permettersi cure e uno stile di vita più sano dei concittadini meno abbienti ai quali, invece, non resta altra scelta se non quella di imparare a sopravvivere, a sacrificarsi, ad adattarsi, a rendersi flessibili e resilienti per superare le avversità che sicuramente si incontreranno sul proprio cammino.
Oggi è la Giornata internazionale per l’eliminazione della povertà,
che sebbene non serva a restituire dignità alla vita di chi soffre, deve essere onorata innanzitutto prendendo coscienza del fatto che le smisurate disuguaglianze economiche e sociali, oggi, degenerano nella ineguaglianza delle esistenze. L’intuizione dell’antropologo Didier Fassin riguardo la coesistenza di vite ineguali è da estendere oltre il perimetro della differente distribuzione tra opportunità e rischi, tra guadagni e perdite, per includere anche il differente posizionamento della vita delle persone rispetto alla possibilità di sopravvivere e al pericolo di morire. Solamente a partire da ciò si può cogliere il carattere iniquo, discriminatorio e lesivo della dignità della vita delle presone alla base del sistema capitalistico neoliberale e provare a programmare un futuro diverso fondato sul rispetto della vita e la cura della persona.
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