Immigrati: servono percorsi di integrazione sociale e professionale

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26.06.2023

In un’Europa che invecchia rapidamente e in cui non si fanno più figli la forza lavoro immigrata sarà sempre più rilevante. I dati demografici ci consegnano un’immagine del futuro preoccupante, con un invecchiamento della popolazione, calo della stessa, a fronte di un’Africa che cresce vorticosamente.  La sola Nigeria entro il 2050 potrebbe avere una popolazione equivalente a quella della UE. 

Nonostante la situazione, questo tema non sembra essere la priorità dei Governi del vecchio continente.

L’Italia è in questo momento uno dei Paesi UE più in crisi dal punto di vista demografico. Basta dire che su circa 60 milioni di abitanti, 6,5 milioni sono stranieri o naturalizzati. Ogni anno l’Italia perde circa 300 mila abitanti, a causa delle basse nascite (385 mila nuovi nati, record negativo), altre migliaia di giovani se ne vanno all’estero in cerca di lavoro. Tutto ciò provoca un invecchiamento della forza lavoro, ma anche un impoverimento culturale, nel nostro Paese. 

L’apporto economico e culturale dei migranti

Ogni giorno si parla sui giornali solo degli sbarchi di migranti, del sostegno dato loro dalle ONG, del fatto che gli stranieri irregolari vanno rimpatriati. Non si parla invece dell’apporto (economico e culturale) che i nuovi cittadini danno al nostro Paese, creando così un clima di insofferenza e odio verso di loro. 

Il tema di fondo non è tanto se l’immigrazione sia in assoluto un bene o un male; il problema vero è la mancanza di programmazione delle politiche migratorie in Italia.

Siamo sicuri di non aver bisogno di manodopera?

Ci sono ragioni demografiche, sociali ed economiche che dimostrano il contrario.

Le opportunità in Italia, seppur in numero limitato, ci sono e bisogna essere in grado di sfruttarle. Ad oggi, infatti, il Paese ha fortemente bisogno di manodopera, e l’aumento delle richieste di permessi di soggiorno per lavorare è un buon segnale. A riprova di questo c’è il fatto che nell’ultimo click day previsto per il decreto flussi 2022, a fronte di 82 mila quote d’ingresso, le domande di assunzione hanno superato quota 240.000. 

La Legge 189/2002 (Bossi-Fini), è intervenuta in senso pesantemente restrittivo sul Testo Unico Immigrazione, non soltanto riducendo la durata del permesso di soggiorno per motivi di lavoro da 4 a 2 anni (durata poi portata a tre anni per i rinnovi dalla legge 50/2023), ma abolendo il meccanismo dello sponsor che permetteva allo straniero l’ingresso per ricerca di lavoro (anche al di fuori della programmazione dei flussi) – sulla base di una garanzia data dallo sponsor (datore di lavoro o associazione). Questo permetteva la possibilità di richiedere manodopera straniera, conoscerla e valutarla, ed eventualmente assumerla garantendo adeguate risorse finanziarie, il costo del viaggio e la disponibilità di un alloggio per il lavoratore stesso.  

Il Decreto Flussi

La Bossi – Fini ha eliminato tutto questo, lasciando spazio solo al meccanismo del decreto flussi d’ingresso annuale, chiamata a distanza, e quote sulla base di un documento di programmazione triennale. Un meccanismo che fin da subito si è rivelato molto farraginoso ed inefficace, capace di prestarsi più al mercato dei permessi che ad un match funzionale della manodopera. 

Nel 2011 il decreto flussi era stato poi ridimensionato ad ingressi per lavoro stagionale e conversione dei permessi. L’assenza di quote d’ingresso per lavoro subordinato si è tradotta in un aumento esponenziale della presenza irregolare di stranieri, violazione delle norme contrattuali e forme di sfruttamento anche gravi; situazione a cui si è tentato di rimediare con periodiche “sanatorie”. 

A partire dal 1998, anno della sua introduzione, il “decreto flussi” è infatti il principale strumento di pianificazione degli ingressi di immigrati per motivi di lavoro. Escludendo i lavoratori stagionali (1,2 milioni in totale, ma in molti casi si tratta delle stesse persone entrate in diversi anni), in circa vent’anni sono entrati in questo modo oltre 800 mila lavoratori stranieri.

Dal 2008, anno di inizio della crisi finanziaria globale, gli ingressi programmati si sono drasticamente ridotti, arrivando a poche migliaia più i lavoratori stagionali.

A loro vanno aggiunti altri 2 milioni di lavoratori regolarizzati attraverso le più sbrigative “sanatorie”: quella del 2003, per esempio, rimane tra le più grandi di sempre in Europa, con circa 650 mila persone regolarizzate in pochi mesi. Ma anche quella del 2012, riservata solo al lavoro domestico; come anche quella del 2020 le cui pratiche non sono state ancora completate. 

La regolarizzazione a posteriori (“sanatoria”) rappresenta un’ammissione implicita dell’incapacità di regolamentare gli ingressi per lavoro regolare.

Canali di ingresso difficili da monitorare

Ed in effetti, negli ultimi anni i principali canali di ingresso in Italia sono stati i ricongiungimenti familiari e i motivi umanitari. In entrambi i casi, le domande sono valutate individualmente, senza “quote”.

In sostanza, i bassi numeri dei “decreti flussi” degli ultimi anni non dipendevano da un mancato bisogno di manodopera straniera. Al contrario, il ridotto impiego dei flussi ha spinto verso l’utilizzo di “altri” canali di ingresso, più difficili da monitorare: cittadini comunitari, ricongiungimenti familiari, visti turistici e soprattutto arrivi irregolari, via mare o via rotta balcanica.

L’annunciato aumento delle quote di ingresso di lavoratori immigrati non rappresenta dunque una “apertura incondizionata delle frontiere”, anzi, è proprio il tentativo di rispondere a un bisogno dei nostri settori produttivi, attraverso una pianificazione ragionata e controllata, l’esatto contrario della gestione emergenziale basata sulle “sanatorie”.

Dietro al problema della carenza di manodopera vi sono non solo risvolti sociologici, ma una tendenza che è difficile da invertire: la popolazione europea sta inesorabilmente invecchiando. Secondo uno studio condotto dalle Nazioni Unite, si stima che nel 2050 le persone in età lavorativa (tra i 20 ed i 64 anni) saranno 95 milioni in meno rispetto al 2015.

La carenza di manodopera è ormai un fenomeno cronico il cui costo, date le dinamiche del mercato del lavoro, sta diventando esorbitante. Nel caso dell’Italia la cifra è stata valutata nel 2022 ad oltre 15 miliardi di euro, secondo uno studio condotto da BCG, un gruppo di consulting. Inoltre, secondo il sistema informativo Excelsior ad inizio di quest’anno le imprese italiane erano alla ricerca di oltre mezzo milione di lavoratori, soprattutto in settori come il Commercio e Turismo, edilizia, trasporto e stoccaggio, agricoltura e soprattutto lavoro domestico. 

Serve cambiare le politiche sull’immigrazione

Visto il gap demografico italiano e l’invecchiamento della popolazione attiva, l’unica soluzione – almeno nel breve e medio termine – è quella di far ricorso al lavoro etnico. Questo soprattutto per le funzioni meno qualificate e per le quali i giovani italiani si mostrano non disponibili, anche a causa del livello di studio e formazione medio-alto che li spinge spesso a cercare lavoro all’estero. 

Il problema è come far arrivare in Italia queste figure professionali, attraverso percorsi regolari, fornire loro supporto formativo e sottrarli alla mafia del trafficking che tante vittime sta causando nelle traversate del Mediterraneo. Questo presuppone, a nostro parere, un cambiamento radicale della normativa sull’immigrazione, semplificando la procedura e rendendo attrattivi percorsi di attrazione di competenze e talenti.

È quanto vanno ripetendo da anni le parti sociali, spingendo il governo a rendere non ideologico l’approccio alla politica migratoria, pensando anche a percorsi di integrazione sociale e professionale.

 “Investire nell’integrazione dei rifugiati e degli immigrati non è soltanto la cosa giusta da fare, ma è anche la cosa intelligente da fare”

Dipartimento Immigrazione UIL

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