Il Patto dei Licenziamenti: dall’accordo alle crisi

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Abbiamo convinto Draghi, ora bisogna monitorare. Lo avevamo detto un mese fa, dopo aver firmato a Palazzo Chigi “il patto dei licenziamenti”. Era il 29 Giugno e, al termine di una lunga maratona insieme a Cgil e Cisl, abbiamo convinto il Governo a cambiare scelte già fatte su un pacchetto di misure sullo sblocco dei licenziamenti che sembrava già chiuso. Abbiamo insistito senza mollare, compatti nell’unità sindacale, forti della risolutezza delle lavoratrici e dei lavoratori che si sono mobilitati per raggiungere questo obiettivo, determinati a rimette al centro il rispetto delle persone e del lavoro.

È stato solo un primo passo per scongiurare licenziamenti collettivi in tutti i settori a partire dal primo luglio. A quasi un mese dall’intesa tra governo, sindacati e associazioni imprenditoriali, è arrivato il momento del tagliando. Abbiamo chiesto al Presidente del Consiglio di convocarci per verificare che gli impegni siano stati rispettati. In quella riunione Draghi ha accettato la nostra proposta di rafforzare i limiti allo sblocco dei licenziamenti, prorogando così il divieto di licenziamento fino al 31 ottobre per il tessile e i settori ad esso collegati e per tutte quelle aziende che hanno tavoli di crisi aperti al Ministero dello Sviluppo Economico, nelle Regioni e nelle Prefetture. Sempre a quel tavolo le aziende si sono impegnate a usare tutti gli ammortizzatori sociali a disposizione prima di avviare qualsiasi procedura di licenziamento. Ulteriori 13 settimane di cassa integrazione.

È stata poi prevista la creazione di una cabina per monitorare sul territorio l’applicazione effettiva degli impegni presi. Non tutte le aziende hanno applicato il protocollo stabilito a Palazzo Chigi, anzi deciso unilateralmente di porre fine al rapporto di lavoro con i propri dipendenti. Tramite un sms, una email o un messaggio su WhatsApp. Prima in ferie e poi, a casa. Non sono solo le modalità di licenziamento che non possono essere accettate. Non possiamo permettere che le multinazionali chiudano dall’oggi al domani per delocalizzare, abbandonando le lavoratrici e i lavoratori, insieme alle loro famiglie, a un destino incerto e senza futuro.  Da Nord a Sud, le mappe delle nuove crisi in Italia sono sempre più ampie e variegate. A cominciare dalla storica Gianetti Ruote che con una email licenzia 152 lavoratori. Sono invece 422 le persone a cui è stata comunicata la chiusura totale dello stabilimento GKN di Campi Bisenzio in provincia di Firenze, 106 i lavoratori licenziati da Timken nel bresciano. Nell’arco di venti giorni tre aziende del settore automotive chiudono i battenti.

E poi ci sono i 327 lavoratori di Whirlpool di Napoli che da oltre due anni si battono per mantenere aperti i cancelli e viva la produzione di una multinazionale in buona salute che, negli anni, ha ricevuto ben 50 milioni di incentivi statali e registra un 20% in più di utili a livello mondiale, compresa l‘Italia. Whirlpool ha deciso di licenziare i lavoratori senza utilizzare le 13 settimane di cassa integrazione. Non lo possiamo permettere. Né per Whirlpool, né per tutte quelle multinazionali che in maniera arrogante vengono nel nostro Paese, fanno i predatori e vanno via. Il governo deve intervenire e impegnarsi per arginare lo strapotere delle multinazionali in questo Paese. Noi non ci arrenderemo mai perché nessuna logica del profitto può passare sopra la pelle dei lavoratori che meritano più rispetto. È evidente che il mercato del lavoro sia in crisi, ma noi dobbiamo dare delle risposte alle lavoratrici e ai lavoratori che manifestano le loro incertezze e le loro paure. Avevamo intravisto nel blocco dei licenziamenti un ponte da percorrere fino alla riforma degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive perché crediamo che i lavoratori non debbano essere lasciati indietro e che, anzi, debbano crescere, formarsi e riqualificarsi. Ne va del futuro del Paese e del lavoro del Terzo Millennio.

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