Donne e Lavoro: una questione tra cultura e diritto.
25.06.2024
La parità di genere è un fatto culturale e la cultura è tutt’altro che astratta. Si reifica nelle relazioni familiari, affettive o sociali. Performa i rapporti personali, di lavoro o, meglio ancora, di potere. Si concretizza anche nella legge. Il diritto, infatti, cristallizza il sentire comune della collettività in un preciso periodo storico. La cultura si fa norma e la norma diventa una fonte storica inestimabile.
Sfogliando la Costituzione e le leggi sul lavoro, è possibile riavvolgere il filo di un lento processo di emancipazione che ancora oggi stenta a completarsi. Conoscerlo significa prendere consapevolezza degli obiettivi raggiunti e di quelli che mancano all’appello.
Le origini: l’articolo 37
In origine, a introdurre il tema della parità di genere sui luoghi di lavoro fu l’art. 37 della Costituzione. Questo specifica il principio di uguaglianza, di cui all’art. 3, stabilendo che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”. Una norma sicuramente di stampo progressista contaminata, però, da un retaggio che non lo è altrettanto. Innanzitutto, il termine “lavoratrice” ha bisogno dell’apposizione rafforzativa “donna”, cosa che non accade per il termine lavoratore. Un’asimmetria linguistica che tradisce la credenza della non piena appartenenza del soggetto femminile alla sfera del lavoro salariato.
È lo stesso meccanismo che ancora oggi rende comuni espressioni come “donna ingegnere” o “donna poliziotto”. Segnali verbali del bias per cui certi mestieri e professioni non sono pensati propri del genere femminile. A riprova di ciò, interviene il secondo comma, sempre dell’articolo 37, ai sensi del quale le condizioni di lavoro (della donna) devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione. Quell’“essenziale funzione familiare” è la parafrasi del pregiudizio per cui il lavoro di cura domestico sia un’esclusiva della popolazione femminile. Non a caso, non si è avuta la stessa attenzione – e lo stesso dibattito – per i padri lavoratori.
Progresso e reazione
Questa oscillazione tra progresso e reazione è stata una costante nel nostro sistema giuridico ma non ha impedito di arrivare ad importanti conquiste. Una tra queste fu la legge 860/1950 che sancì il divieto di licenziamento durante il periodo di gestazione e quello di astensione obbligatoria dal lavoro, pari ad otto settimane dopo il parto. Inoltre, stabilì il divieto di adibire le donne al lavoro nei tre mesi precedenti la data presunta del parto per le addette all’industria, nelle otto settimane precedenti per le addette ai lavori agricoli e nelle sei settimane precedenti per tutte le altre categorie.
Infine, fu prevista la facoltà di assentarsi per un periodo di sei mesi, trascorse le otto settimane successive al parto, conservando il posto “a tutti gli effetti dell’anzianità”, senza però aver diritto all’indennità giornaliera dell’80% della retribuzione.
Il congedo di maternità
È seguita, poi, la prima normativa organica in materia di congedo di maternità ossia la legge n. 1204 del 1971. In particolare, questa imponeva il divieto di licenziamento delle lavoratrici dall’inizio della gravidanza fino al termine del periodo di astensione dal lavoro, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino. La lavoratrice a cui fosse negato tale diritto, presentata idonea certificazione della violazione di legge, aveva diritto ad essere reintegrata sul posto di lavoro. Per vedere emanate norme simili per i lavoratori, utili a un’equa distribuzione del lavoro di cura, si dovranno attendere ben 29 anni. Infatti, solo con la legge dell’8 marzo 2000, n. 53 è stata introdotta per la prima volta la fruizione del congedo parentale maschile.
La legge n. 903 del 1977
Altro importante tassello nel quadro della tutela legislativa della parità di genere sui luoghi di lavoro fu la legge 903 del 1977. È interessante precisare che questo corpus di norme si è occupato solo in parte di lavoro femminile. Infatti, i soggetti destinatari erano indifferentemente uomini e donne, tra i quali si prevedeva non fosse lecito discriminare in quanto a formazione e orientamento, accesso al lavoro e svolgimento dei rapporti di lavoro, aggiornamento e perfezionamento professionale.
Le lavoratrici sono state citate specificatamente nell’art. 2 che ribadiva il principio costituzionale della parità di retribuzione, negli artt. 1 e 5 sulla modifica alla vecchia legislazione sul lavoro femminile e negli artt. 9, 10, 11 e 12 che abrogavano i trattamenti deteriori delle donne in materia di assegni familiari, prestazioni ai superstiti, assicurazione in materia di infortuni e malattie professionali in agricoltura. Ai lavoratori è stato dedicato l’art. 7 che conteneva il primo rivoluzionario tentativo di istituire i permessi di paternità, ossia le assenze dal lavoro del padre in alternativa alla madre.
Le disparità di fatto
Merita poi di essere ricordata la legge n. 125 del 1991 sulle azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro. Un intervento legislativo che si concentrava sulle disparità di fatto, promuovendo sia l’inserimento delle donne nei settori dove erano sottorappresentate, sia una migliore ripartizione delle responsabilità familiari e professionali tra i due sessi.
Stando a quanto sancito dalla legge, le imprese, i sindacati e i centri di formazione potevano richiedere al Ministero del Lavoro un rimborso totale e parziale di oneri finanziari per l’attuazione delle azioni positive.
In più, fu istituito, sempre presso il Ministero del Lavoro, un Comitato Nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento tra lavoratrici e lavoratori. La sua funzione è tuttora formulare proposte, informare e promuovere azioni positive, esprimere un parere sui finanziamenti dei relativi progetti ed elaborare codici di condotta. Inoltre, deve verificare lo stato di applicazione della legge, proporre soluzioni a controversie collettive e, infine, richiedere l’intervento dell’Ispettorato del Lavoro.
La legge n. 125/91 ha anche introdotto la figura dei consiglieri di parità per presidiare la condizione della donna nel mercato del lavoro a livello nazionale, regionale e provinciale. Quasi dieci anni dopo, la loro disciplina è stata modificata dal D.Lgs. n.196/2000 che assegna loro funzioni di promozione e controllo dell’attuazione dei principi di pari opportunità. In sintesi, sono pubblici ufficiali che hanno l’obbligo di segnalare all’autorità giudiziaria i reati in materia di cui vengono a conoscenza.
Infine, la stessa legge del ’91 ha previsto che il giudice, nel caso di condanna per discriminazioni, può ordinare al consigliere regionale competente e al datore di lavoro, sentite le rappresentanze sindacale, di attuare un piano per la rimozione delle discriminazioni accertate.
Gli sviluppi recenti
Tutta la normativa è stata poi riordinata dal Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità (D. Lgs. 151 del 2001). Qui si ribadisce il divieto di qualsiasi discriminazione di genere nelle condizioni di lavoro, con ripetuti riferimenti alla l.n.903 del ’77. Poi, nell’art. 54 si ripropone il divieto di licenziamento, con i stessi limiti temporali introdotti con la già citata legge n. 1204 del 1971.
L’opera di sistematizzazione del diritto sulla parità di genere è proseguita con il Codice delle Pari Opportunità, emanato dal D. Lgs. n. 198 del 2006, poi modificato nel 2010 e nel 2017 al fine di recepire la direttiva comunitaria 2006/54 con importanti novità in materia di occupazione, lavoro e retribuzione. La ratio di fondo di questo complesso corpus normativo è quella di superare tutte le condizioni sfavorevoli che inficiano l’effettiva condizione di parità di genere.
Ad esempio, ha introdotto il principio della tutela delle pari opportunità in caso di maternità e paternità, con un approccio di ampio respiro sulle situazioni di discriminazione derivate dallo status di genitore, uomo o donna che sia. Permette poi una parificazione più netta nell’accesso alle prestazioni previdenziali, non solo nel contenuto, ma anche nelle procedure in cui persistevano trattamenti differenziati. E, infine, potenzia la tutela relativa alle molestie subite, da ambo i sessi, sui luoghi di lavoro, con una definizione più puntuale delle stesse, ricomprendendo anche le eventuali ripercussioni indirette.
La Certificazione sulla parità di genere.
Un ulteriore modifica del Codice sarà approvata poi nel 2021 con la cosiddetta Legge Gribaudo. Nello specifico, questa è intervenuta sull’art. 46, intitolato “Rapporto sulla situazione del personale”, per cui “le aziende pubbliche e private che occupano più di 50 dipendenti (100 prima della Legge Gribaudo) sono tenute a redigere, con cadenza biennale, un rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile”. L’obiettivo è tenere traccia delle differenze nelle retribuzioni, nell’inquadramento contrattuale e nelle mansioni tra lavoratrici e lavoratori. È utile anche per accedere alle informazioni sui processi di selezione e valutazione del personale, sugli strumenti disponibili per la conciliazione tra vita e di lavoro, e sulla presenza di politiche aziendali a garanzia di un ambiente di lavoro inclusivo. In più, lo stesso rapporto deve indicare le modalità di accesso da parte dei dipendenti e delle rappresentanze sindacali dell’azienda interessata.
Ma cosa ancora più importante, la Legge Gribaudo ha introdotto la Certificazione della parità di genere volta ad attestare «le politiche e le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale a parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità» indipendentemente dal numero dei dipendenti. Questa certificazione permette all’azienda di accedere a diversi vantaggi tra cui uno sgravio contributivo parziale.
La cultura dietro al diritto
Questa rapida rassegna legislativa restituisce con chiarezza quante energie e tempo siano stati necessari nel percorso di attuazione del principio di parità di genere sui luoghi di lavoro. Ci sono voluti quasi trent’anni per introdurre norme sul congedo parentale maschile, funzionale a un’equa ripartizione della genitorialità. Ancora oggi, nonostante i progressi fatti, fatichiamo a rompere il tetto di cristallo. L’emancipazione economica delle donne è tuttora compromessa dal mito dell’angelo del focolare. Perciò è fondamentale proseguire nell’opera di sensibilizzazione e informazione sulle tematiche di genere per costruire insieme una cultura più inclusiva. Ne deriverà un ordinamento giuridico in grado di cogliere tutte le diverse ipotesi di disparità e abuso, con una migliore tutela dei diritti delle donne sui luoghi di lavoro.
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