Concorrenza sleale. Perché l’UE impone dazi all’importazione di auto elettriche cinesi

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10.07.2024

La Commissione Europea ha recentemente notificato a Pechino l’intenzione di imporre un nuovo livello di dazi all’importazione di macchine elettriche di fabbricazione cinese, fissando una quota più elevata rispetto a quella ipotizzata da molti analisti, spingendosi fino al 38.1% in aggiunta all’attuale tariffa del 10%.

L’Unione Europea ha scelto di ricorrere ad un ventaglio di dazi, modellati sulla base della collaborazione fornita dalle compagnie cinesi durante l’indagine; ad essere maggiormente colpiti da tale scelta saranno tre campioni cinesi del settore, ossia la società Byd, i cui prodotti potranno entrare nel mercato unico pagando una tariffa supplementare del 17.4%. Per Geely sarà del 20%, mentre a pagare la quota maggiore sarà la società a controllo statale SAIC con il 38.1%. Gli altri produttori di auto elettriche cinesi saranno soggetti al dazio medio del 21%, comprese le case automobilistiche Tesla, Dacia e BMW che producono in Cina. In accordo alle regole del WTO, il nuovo listino di dazi entrerà in vigore solo dal 4 luglio, lasciando quattro settimane di tempo alle autorità cinesi per trovare una mediazione con la controparte europea.

La scelta odierna prende le mosse dall’annuncio fatto dalla Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, a settembre dell’anno scorso, dinanzi l’Europarlamento durante l’abituale discorso sullo stato dell’Unione (SOTEU), nel quale espresse la volontà di iniziare un’indagine antisovvenzioni riguardo le auto elettriche prodotte nella terra del Dragone. Come accertato durante l’indagine, durata ben più di nove mesi, le società che operano nel settore hanno goduto di sostanziose sovvenzioni statali, consentendo ai produttori cinesi di poter vendere i loro prodotti al di sotto del costo di produzione a danno di quelli europei, e ciò si traduce in una concorrenza sleale e crea una rilevante distorsione del mercato.

La decisione della Commissione europea ha incontrato sensibilità nazionali diverse; Francia e Spagna, preoccupati dal difendere il proprio tessuto industriale automobilistico interno, hanno invocato un atteggiamento dell’UE più proattivo e coraggioso e capace di tenere una posizione globale forte.

Diverso il posizionamento della Germania, che ha importanti legami economici e commerciali con Pechino e teme ritorsioni del governo cinese in grado di colpire duramente alcuni suoi campioni mondiali nei settori dell’automotive e farmaceutico, fortemente dipendenti dall’export verso i mercati cinesi. Timore, questo, condiviso con altri Paesi UE, come l’Italia, che è interessata a tutelare l’export del settore agroalimentare e la filiera del lusso.

Pechino, inoltre, può contare sull’opposizione del Primo Ministro ungherese, Victor Orban, data la presenza di una fabbrica di autobus elettrici del marchio leader cinese Byd a Komárom e l’intenzione di aprire una nuova industria per la produzione di automobili elettriche presso Szeged.

La scelta sui dazi non è ancora definitiva, essa sarà confermata durante la riunione del Consiglio europeo, il prossimo novembre. D’altro canto, perché la decisione possa essere ribaltata, servirà una maggioranza qualificata di Stati contrari, ossia 15 Paesi che rappresentino il 65% della popolazione europea.

La decisione europea è quasi un atto dovuto dopo la scelta dell’amministrazione Biden di imporre nuovi pesanti dazi sui prodotti cinesi, quadruplicando quelli sui veicoli elettrici portandoli ad oltre il 100% e raddoppiando quelli sui semiconduttori al 50%. Secondo i dati forniti dal think tank americano CSIS, dalla Cina sarebbero importate solo il 2% delle auto elettriche presenti sul mercato statunitense, per un valore totale di 365 milioni di dollari nel corso del 2023. Il mercato europeo, invece, si è mostrato molto più permeabile all’offensiva del Dragone che, secondo alcuni studi, potrebbe arrivare nei prossimi due anni a conquistare il 15% dell’intero mercato dell’automotive europeo.

La scelta europea e americana ha l’obiettivo, non così celato, di tutelare la propria filiera automobilistica, sempre più messa a repentaglio dalla concorrenza a basso costo cinese. Specie l’UE, che con l’ambizioso obiettivo di fermare entro il 2035 la vendita di automobili con motori a benzina o diesel, teme di perdere la sua più importante catena di valore. L’automotive sarebbe impossibilitato nel riconvertirsi verso la produzione di veicoli elettrici a causa della concorrenza sleale dei competitor cinesi, i quali, grazie ad un basso costo del lavoro e alle sovvenzioni statali, possono permettersi di deprezzare il prodotto finale al consumatore.

L’Europa, con l’apertura dell’indagine e l’imposizione di nuovi dazi, ha dimostrato di voler agire in modo proattivo per proteggere le proprie industrie europee, utilizzando gli strumenti commerciali a sua disposizione; d’altro canto, si tratta di un ventaglio di opzioni ristretto, che rischia di essere inadeguato dinanzi alla guerra commerciale in atto tra le due super-potenze. L’Unione Europea ha bisogno di una visione strategica e di una conseguente politica industriale, che le consenta di non perdere nuovamente il primato nelle filiere economiche fondamentali, come invece fatto nel corso dei primi anni 2000 quando la Cina si impose come maggior produttore di pannelli solari a scapito delle imprese europee.

Dinanzi all’Inflation Reduction Act (IRA) statunitense e alla politica di sussidi pubblici cinese, l’Europa non può trincerarsi dietro vetuste regole di bilancio, ma piuttosto abbracciare pienamente quella “autonomia strategica aperta” su cui tanto si è discusso. A fronte delle nuove sfide geopolitiche e di quelle provenienti dalla doppia transizione, ambientale e digitale, l’Europa deve divenire più resiliente e autosufficiente, senza per questo cadere in politiche protezioniste. La prosperità economica europea è strettamente legata a quella globale, ciò significa promuovere un commercio equo secondo regole e standard comuni, che tuteli i diritti dei lavoratori e il perseguimento di un modello economico che sia sostenibile, sia in ambito sociale sia ambientale. Serve garantire che le catene di approvvigionamento globali siano improntate sulla due diligence e dovrebbe esservi un impegno a livello europeo sull’implementazione dei principi fissati dall’OIL riguardo la promozione del lavoro dignitoso.

Se l’Europa vuole conservare la sua competitività, l’unica risposta possibile è quella di una maggiore coesione e integrazione europea. Un’UE che, come in risposta alle conseguenze generate dal Covid-19, punti a politiche di investimento comune in settori strategici, rafforzando le proprie capacità di produzione interna in campi industriali in cui ha un vantaggio competitivo rispetto ad altri attori regionali e globali.

Dipartimento Internazionale

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