Borsellino: il delitto sarebbe dimenticare

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19.07.2022

Nel suo ultimo libro, intitolato Vita e persecuzione di Giovanni Falcone, Claudio Martelli, che tra l’altro è stato anche Ministro della Giustizia, scrive: «Custodi della pace sociale e delle libertà civili, tutori della libertà di tutti e persecutori della giustizia, in alcuni dei migliori dello Stato il senso del dovere è, o diventa, così forte e impegnativo che tutta la loro vita ne è impregnata e condizionata. La passione e la volontà professionali possono anche essere deluse, ferite, possono persino perderli, ma mai essere perdute. Falcone, Borsellino, Dalla Chiesa, Chinnici, Cassarà, Saetta, Livatino ne sono l’esempio. Come quei metalli capaci di resistere a urti e torsioni, così è la natura di certi servitori dello Stato: combattiva, dura, resiliente, al punto che anche se il piombo e il fuoco dei delinquenti possono ucciderli, l’impronta che lasciano non si cancella, si trasmette e rinasce».

BORSELLINO: LA MEMORIA TRASFORMA IL RICORDO

È la memoria che trasforma il ricordo di un fatto accaduto nel passato in momento fondante del presente e del futuro. È la condivisione di essa che permette di trasformarla da individuale a collettiva, tanto da diventare collante di una comunità; affinché, appunto, quell’impronta lasciata da persone che hanno dato la vita per il bene del nostro Paese non si cancelli mai. Ma il compito di farla sempre rinascere è nostro, di chi resta e sente il valore di una scelta, come unica via per il progresso della società.

La memoria va coltivata nel tempo e trasmessa a chi viene dopo di noi; come storia dei fatti, come monito, come esempio. E il 19 luglio è una delle date più importanti per la nostra comunità, perché cade il trentennale della morte del magistrato Paolo Borsellino, avvenuta pochi giorni dopo quella del suo amico e collega Giovanni Falcone. Entrambi sono caduti per mano di quella mafia, quel maledetto cancro del nostro Paese, a cui avevano giurato guerra senza quartiere, riportando successi importantissimi.

IL 19 LUGLIO DEL 1992

Quel pomeriggio di luglio del 1992, Paolo Borsellino era diretto verso l’abitazione della madre, dopo aver pranzato con la famiglia a Villagrazia di Carini. Ad attenderlo, un’auto carica di tritolo parcheggiata in via D’Amelio, che spezzò la vita oltre che di Borsellino anche dei cinque agenti della sua scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Paolo Borsellino era nato il 19 gennaio del 1940 a Palermo, dove la famiglia possedeva una farmacia. Crebbe nella Kalsa, l’antico quartiere di origine araba della città; lo stesso di Giovanni Falcone, che di Borsellino era coetaneo e amico fin dalla tenera età, abitando a poca distanza l’uno dall’altro. Entrambi frequenteranno lo stesso liceo. Tutti e due si laureeranno in legge. E Borsellino, che conseguì questo titolo nel 1962, già nell’anno successivo sarà il più giovane magistrato d’Italia. Poi, pretore prima a Mazara del Vallo e successivamente a Monreale, dove infligge duri colpi alle cosche locali, insieme al capitano dei carabinieri Basile, che purtroppo troverà la morte per mano della mafia.

BORSELLINO ARRIVA A PALERMO

Nel 1975 Borsellino arriva a Palermo, dove trova il giudice Rocco Chinnici, il quale, nel 1979, accolse nel suo gruppo anche Giovanni Falcone. Di Chinnici Borsellino dirà, come riportato sempre da Martelli nel suo libro: «Uno ad uno ci scelse; noi magistrati che solo dopo la sua morte avremmo costituito il cosiddetto pool antimafia […] gli era così chiara l’unitarietà e l’interdipendenza tra tutte le famiglie mafiose e palese la connessione tra tutti i loro principali delitti che a lui risale la paternità o almeno l’ispirazione dei primi provvedimenti di riunione delle istruttorie sui grandi delitti di mafia».

Chinnici muore il 29 luglio 1983 in un attentato mafioso ed a Palermo arriva Antonino Caponnetto, che partendo dalle intuizioni che già si erano sedimentate nelle nuove modalità di lotta alla mafia, inizia un innovativo lavoro di indagine certosino, quanto scientifico, mettendo a valore il talento di quel pool antimafia composto oltre che da Falcone e Borsellino anche da Giuseppe Di Lello Finuoli e Leonardo Guarnotta. Del fenomeno mafioso bisognava avere una visione che fosse più unitaria possibile, “seguendo i soldi”, ricostruire la trama dei legami tra famiglie mafiose e le “aree grigie” della complicità.

IL MAXIPROCESSO

Inizia l’istruzione di quello che è passato alla storia come maxiprocesso. Un lavoro enorme e pericoloso, tanto che Falcone e Borsellino, per ragioni di sicurezza, furono ospiti della foresteria del carcere dell’Asinara per la redazione degli atti necessari alla preparazione del processo, il quale si concluse a Palermo nel 1987 con 342 condanne ed infliggendo un colpo durissimo a “Cosa Nostra”.

Poi, una mafia sempre più indebolita, dichiara guerra allo Stato. Arrivano, in una macabra e terribile vicinanza l’uno all’altro, il 23 maggio del 1992, in cui trovano la morte Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Vi furono anche 23 feriti. E, pochi giorni dopo, quell’altrettanto maledetto 19 luglio, con la strage di via D’Amelio.

Anche un atroce delitto può essere dimenticato, insieme al sacrificio di chi ha sempre creduto nella giustizia. Il compito di tutti è che ciò non accada, non solo attraverso la commemorazione, ma nel costante e quotidiano impegno ad una lotta che deve avere un solo obbiettivo: l’annientamento definitivo delle mafie.

 

Raffaele Tedesco

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