Una delle pagine più buie della nostra storia: il rastrellamento del ghetto di Roma
16.10.2023
Si presentarono con in una mano il fucile e nell’altra un biglietto dove c’era scritto: «1) Insieme con la vostra famiglia e con gli altri ebrei appartenenti alla vostra casa sarete trasferiti. 2) Bisogna portare con sé: a) viveri per almeno 8 giorni; b) tessere annonarie; c) carta d’identità; d) bicchieri. 3) Si può portare via: a) valigetta con effetti e biancheria personali; b) denaro e gioielli. 4) Chiudere a chiavi l’appartamento risp. la casa. 5) Ammalati anche casi gravissimi non possono per nessun motivo rimanere. Infermeria si trova nel campo. 6) Venti minuti dopo presentazione di questo biglietto la famiglia deve essere pronta per la partenza».
Era il 16 dicembre del 1943, quando i nazisti arrivarono nel ghetto di Roma a prelevare gli ebrei.
Quel giorno, di sabato, verso le 4 del mattino iniziò a piovigginare e i sampietrini erano tutti bagnati.
A Portico d’Ottavia, intorno alle sei del mattino, il silenzio venne rotto all’improvviso dal rumore di automezzi militari, che si appostavano lungo la strada. Poi, il chiasso cupo degli scarponi che andavano di corsa sul selciato e il frastuono dei calci di fucile che battevano violentemente sulle porte, in cerca di vite umane.
L’occupazione nazista a Roma
Da poco era passato l’8 settembre, giorno dell’Armistizio firmato per l’Italia dal generale Badoglio. Ma la guerra continuava, pur se non più al fianco delle potenze dell’Asse. Roma, quindi, cadde sotto il controllo dei nazisti, che la occuparono definitivamente il 10 settembre.
Per gli ebrei iniziava un altro periodo tragico. La più antica comunità israelitica d’Europa passò allora dalla persecuzione dei diritti, avvenuta con l’emanazione delle infami leggi razziale nel 1938 da parte di Mussolini, alla persecuzione delle vite, per mano dei nazisti, aiutati dalle camicie nere.
Da lì in poi, la consegna di un ebreo maschio sarebbe stata pagata cinquemila lire; di una donna tremila; di un bambino millecinquecento.
Eppure, in quel momento, gli ebrei di Roma non immaginavano lontanamente cosa stava loro per accadere, pur se notizie raccapriccianti arrivavano da Radio Londra o da voci isolate, rispetto alle deportazioni in Europa orientale.
Poco prima, avevano anche consegnato cinquanta chili in oro al capo nazista Herbert Kappler, che in cambio gli prometteva l’incolumità. Un escamotage non solo di natura predatoria, ma anche con lo scopo di trattenerli nella Capitale, prima che il piano di sterminio – voluto da Hitler e conosciuto anche da Mussolini – avesse inizio.
Anche gli spari avvertiti nottetempo nelle vie del ghetto, furono esplosi per generare paura nella popolazione, al fine di tenerla chiusa in casa, in attesa che le squadre appositamente venute dalla Germania iniziassero il loro sporco lavoro.
La notte del rastrellamento
All’arrivo dei militari, si sparse subito il panico, mentre i convogli iniziavano a riempirsi di innocenti. L’obbiettivo era prelevare tutti, senza distinzione.
Nelle loro mani i tedeschi hanno elenchi estremamente dettagliati. Sanno chi cercare e dove farlo. Queste liste, con ogni evidenza, furono scrupolosamente preparate molto tempo addietro e custodite presso la Direzione generale per la demografia e la razza (la famigerata Demorazza), nata il 17 luglio 1938 e alle dipendenze del Ministero dell’interno del regime fascista.
Mentre i nazisti rastrellavano casa per casa, in molti tentarono la fuga. Si scappava verso il Tevere o piazza d’Aracoeli, venendo giù da finestre, balconi o cornicioni. Salendo sui tetti, correndo per vicoli o strade; bussando alle porte amiche o sconosciute che siano, chiedendo aiuto. Ci si addentrava nei cunicoli fognari verso il fiume, pieni di liquami e resti animali. Tanti si salvarono in chiese e conventi, che aprirono loro le porte. Le madri buttavano giù dai camion i loro bambini, mettendogli nelle mani di donne cattoliche, che per strapparli alla morte, dichiaravano ai tedeschi che erano loro figli.
Finita la razzia, gli ebrei prelevati furono portati in via della Lungara, presso un collegio militare. Erano 1.259 persone, di cui 689 donne, 363 uomini e 207 tra bambini e bambine.
Furono rilasciati i non ebrei, gli stranieri protetti, i “misti” e i coniugi di matrimoni “misti”.
A salire sui vagoni piombati che partirono due giorni dopo dalla stazione Tiburtina, saranno in 1022. Destinazione, il campo Auschwitz, dove arrivarono dopo 5 giorni e 6 notti di viaggio.
Tornarono a casa solo in 16: 15 uomini e una donna.
Nessun bambino fece più ritorno. “Non cominciarono neppure a vivere”, recita una targa in loro ricordo posta al Portico d’Ottavia. Una barbarie: una delle pagine più buie della nostra storia, che non va assolutamente dimenticata.
Ricordare è un dovere
La memoria è uno strumento fondamentale, ma anche tanto fragile. Va alimentata, per essere trasmessa con tutta quella forza necessaria affinché si trasformi in una barriera invincibile verso quegli orrori che la storia sta lì a testimoniare. Coltivarla, secondo Liliana Segre, che del male assoluto è stata testimone, è «ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e di sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza e la può usare».
Ne va del nostro futuro.
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di Pierpaolo Bombardieri

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