UN PAIO di SCARPONI

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24.04.2025

Opera di Vincent Van Gogh, 1886, (cm.37,5×45,5)

Il dipinto mostra, in primo piano e visti dall’alto, un paio di scarponi logorati dall’ uso, vecchi e sformati che proiettano una densa zona d’ombra sulla nostra sinistra.

Sono dipinti con pennellate veloci e decise di colore bruno, colori di terra e d’ ombra. Poggiano su un pavimento rustico, forse di una stalla o di un’umile abitazione contadina o proletaria come quelle del Borinage o del Drenthe dove Vincent (così si firma, in alto a sinistra), visse con i poveri minatori e contadini, predicando il Vangelo e condividendone la condizione umile e precaria.

Soprattutto nella prima parte della sua attività artistica (che per lui coincide perfettamente con la vita), Vincent trae spunto dalla conoscenza diretta, anzi dalla sua “immersione” totale nel mondo degli umili dei quali condivide abitazioni e cibo, attrezzi di lavoro, suppellettili e persino indumenti.

Il realismo dell’immagine richiama senz’altro la concezione dell’arte dei pittori della seconda metà dell’800, quando essi si accostano alla classe operaia, ai ceti popolari della campagna e della città, con la volontà dichiarata di volerne interpretare e rappresentare la vita, le condizioni di lavoro e di esistenza.

Occorre ricordare che, quando si parla di realismo, non si intende soltanto la fedeltà al vero dell’immagine, ma anche la scelta del soggetto: si predilige infatti la rappresentazione di aspetti quotidiani e anche banali dell’esistenza, si “studiano” gli oggetti che caratterizzano l’esistenza degli “ultimi” nella scala sociale e si attribuisce loro una particolare bellezza (derivante dalla loro verità) e un nuovissimo e impensato valore estetico.

Nell’ apertura degli scarponi, logorati dall’ uso, con il cuoio della tomaia a brandelli, il collare e la fodera marci, i lacci sfilacciati, si può intuire la fatica quotidiana sui campi per l’aratura o la semina, per la raccolta delle patate e degli altri frutti del lavoro dei campi; si intuisce la pesantezza del passo lungo i solchi del terreno, gonfi d’acqua o aridi per la siccità.

Nella loro presenza centrale e dominante (e, per quei tempi, scandalosa per l’arte tradizionale e “ufficiale” delle Accademie) questo paio di scarpe richiama anche la fatica immane degli operai delle miniere, il loro percorso faticoso nel ventre della terra, esposti quotidianamente al pericolo delle frane, dei gas, delle esplosioni.

Il cuoio deformato e impregnato dall’acqua denuncia la fatica senza sosta della lotta per la sopravvivenza, la paura di non essere in grado di procacciare il pane quotidiano, di non guadagnare abbastanza per mantenere la famiglia; la paura del raccolto scarso e della carestia, il terrore della solitudine e del buio per chi trascorre la propria giornata lavorativa nelle viscere della terra, con la paura costante di non poter risalire in superficie e vedere la luce del giorno.

Nel saggio “Ein paar Bauernschuhe” (1933) il filosofo Martin Heidegger scrive che questo quadro (al suo tempo non particolarmente apprezzato), è invece una grande opera d’arte. Lo è, non perché imita perfettamente delle calzature (secondo la classica concezione dell’Arte come Mimesis), ma perché (pur rappresentando un oggetto umile, quotidiano, ha la forza di aprire un mondo: l’intero mondo del contadino o del minatore che ha calzato quelle scarpe viene alla luce.

L’ arte ha la capacità di dischiudere la Verità, scrive il filosofo; di “mostrare” ciò che è nascosto. Infatti, ciò che gli antichi filosofi greci chiamano verità è il “non-essere-nascosto dell’Ente”. “Aletheia”, significa proprio “non nascosto”: la verità, è ciò che non è nascosto, ciò che viene mostrato.

Dunque, nell’ opera d’arte la Verità dell’Ente “si è posta in opera” e questo “dischiudere la verità” che in essa accade può essere colto solo a partire dall’opera stessa. Ne deriva la potenzialità dell’Arte di essere suscitatrice di pensiero, fonte di idee che vanno al di là dei suoi stessi confini.

Il “quadro parla”. L’opera d’arte svela il significato profondo del pensiero (conscio e inconscio) dell’Artista. Stando davanti all’opera ci troviamo in una dimensione diversa da quella in cui siamo comunemente: l’opera ci illumina, a partire dall’oggetto rappresentato, sulla verità sottesa. Questi scarponi non sono soltanto una semplice riproduzione ma, per usare le sue parole “l’aprimento e lo svelamento della Verità”. In questa opera di Van Gogh “la Verità dell’Ente si è mostrata nella forma e nella sostanza”, nel suo essere “unione di materia e idea”.

Il critico Meyer Schapiro, invece, (in polemica con Heidegger), afferma che questi scarponi sono proprio quelli di Vincent e che in questo dipinto (come in altri quadri), si può cogliere una “estensione del suo essere”, della soggettività dell’artista. Egli ritiene dunque che, il significato dell’opera riguardi il destino personale di Van Gogh che “libera” nei suoi quadri tutte le sue aspirazioni frustrate e le sue angosce esistenziali. Del resto, la sua esistenza tormentata, alla quale pone termine col suicidio, rappresenta il fallimento del suo tentativo di salvezza attraverso l’arte.

Jacques Derrida, un altro filosofo che intervenne nel dibattito, nel suo scritto “La verità in pittura” cerca di porre fine alla questione sulla “proprietà delle scarpe”: sono di un povero contadino, di un minatore o di Vincent?

Egli afferma che carattere precipuo di un’opera d’arte è la facoltà di generare molteplici rimandi, anche differenti o apparentemente contrapposti. L’importante è che essa diviene “causa del pensiero” e feconda generatrice di riflessioni e confronti.

D’altro canto, diciamo noi, che importanza ha la proprietà delle scarpe? Potrebbero essere di un povero coltivatore di patate, di un minatore o dello stesso artista. Vincent (che, non a caso dipinge diversi quadri con questo stesso soggetto apparentemente umile e insignificante) conferisce a questo paio di scarponi la stessa funzione poetica degli ossi di seppia montaliani: essere un “correlativo oggettivo” della sua visione del mondo e della sua concezione dell’Arte.

L’opera è conservata al Van Gogh Museum, Amsterdam.

Licia Lisei

 

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