Il Trattato di Detroit

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24.10.2023

Nel 1913, Henry Ford installò a Dearborn – nell’area metropolitana della città di Detroit – la prima catena di montaggio per la produzione di massa di automobili. Avrebbe costruito la mitica Ford Modello T in solo due ore e mezzo.

Inizia così l’era del fordismo – grazie anche all’esperto di cronotecnica Frederick Taylor – in cui ogni operaio della catena di montaggio era specializzato in uno solo degli ottantaquattro “step” necessari a realizzare un’auto alla portata del maggior numero di persone possibili.

Da quel momento, Detroit divenne il cuore pulsante dell’industria americana. Basti pensare anche a colossi come General Motors, Chrysler e Chevrolet che vi si insediarono. Una Motown, passaggio obbligato e fondamentale di quella poderosa “striscia industriale”, che in tempi di deindustrializzazione sarà tristemente ribattezzata Rust Belt (cintura della ruggine): la regione compresa tra i monti Appalachi settentrionali e i Grandi Laghi.

Detroit: il cuore pulsante dell’industria americana

Qui ci sono le radici profonde dell’America del Midwest, dove l’industria, per tutto il ‘900, ha rappresentato l’epicentro del progresso economico e sociale del paese, messo in crisi dai repentini cambiamenti economici succedutesi dagli anni ’70, fino alla crisi finanziaria del 2007-2008, che ha esacerbato le tensioni provenienti dalla globalizzazione dell’economia e della finanza.

Detroit, quindi, era per antonomasia il luogo della grande fabbrica; dei blue collar, termine che indica quelle che per noi sono le tute blue; di un movimento sindacale che – così come scrisse Gills Martinet – “è una socialdemocrazia che non si riconosce per tale”, perché Oltreoceano mai i destini degli operai si sono identificati con le strutture di partiti socialisti.

Alcuni caratteri del movimento operaio negli Stati Uniti

Negli Usa, infatti, mancava il concetto di “coscienza di classe”, tutto interno invece all’ideologia marxista. Eppure, la “lotta di classe” – aspra e non di rado violenta – è stata una cifra dei sindacati americani. Nel 1979, per esempio, lo sciopero alla General Motors durò ben cento giorni. Quello dei minatori del 1978, oltre un mese. Lotte dure in cui, però, mancava l’aspetto tutto politico della volontà di sovvertire il sistema capitalistico che dominava la società americana. Gli operai, quindi, non lottavano per una utopica società socialista, ma volevano affermarsi in quella esistente, che nel suo espandersi in ricchezza e possibilità, gli avrebbe garantito progresso economico e sociale.

Non deve stupire, quindi, che negli Usa sarà il bargainig system (sistema della contrattazione) la vera e, di fatto unica, struttura portante del sindacalismo. E lo sforzo principale delle union è stato sempre quello di impiantare il sindacato fabbrica per fabbrica, attraverso un personale qualificato composto da figure come l’organizer, il business agent e lo shop steward.

Inoltre, a differenza di ciò che accade nella maggioranza dei paesi europei, di norma negli Usa i datori di lavoro non sono organizzati in associazioni che negoziano il proprio contratto collettivo con un sindacato di categoria. La contrattazione, quindi, si svolge in ogni singola unità produttiva e non a livello nazionale, territoriale o aziendale, come invece accade da noi.

Tra le esperienze di contrattazione più importanti che si ricordano negli Usa c’è quello che è passata alla storia con il nome altisonante di Trattato di Detroit, le cui vicende si svolsero proprio nella Motown del Michigan tra il 1948 e il 1950.

L’accordo tra il sindacato Uaw e la General Motors

Protagonisti dell’accordo furono il sindacato dell’auto Uaw (United Automobile Workers), guidato da Walter Philip Reuther, e la casa automobilistica General Motors, diretta all’epoca dal manager Alfred. P. Sloan.

Alla base dell’accordo c’era la volontà di far progredire parallelamente sia la produttività che i salari.

Si stabilì che l’impresa avrebbe assicurato un avanzamento retributivo per tutti i lavoratori – nessuno escluso – pari al 2 per cento l’anno. Come contropartita il sindacato avrebbe dovuto garantire il controllo della conflittualità.

Si può ovviamente discutere di questa “disciplina contrattata”, che nei fatti espungeva in gran parte ogni discussione sul lavoro lungo la catena di montaggio, ma i risvolti economici favorevoli per i lavoratori furono ragguardevoli. In più, oltre al salario, furono contrattati notevoli benefici anche in ordine a pensioni e sanità: una massa di garanzie sociali che soltanto gli operai americani avevano ottenuto fino ad allora.

Con il Trattato, «lo spazio dell’azione collettiva – scrive lo storico dell’economia Giuseppe Berta – era anch’esso ben delimitato, con le sue procedure e le sue scadenze che le locals (il sindacato locale ndr) dovevano rispettare, pena l’incorrere in sanzioni».

Il programma ottenuto dal sindacato Uaw ha rappresentato, secondo gli esperti, «una specie di welfare state privatizzato che quasi raddoppiò lo standard reale di vita dei lavoratori dell’auto americana nel quarto di secolo dopo il 1945».

Questa regolamentazione del conflitto, non impedì comunque che nel corso degli anni si verificassero degli scioperi spontanei. Il sindacato, però, seppe ben gestire il conflitto, in modo da far rientrare sempre ogni contestazione, senza sconvolgere o mettere a repentaglio i risultati economico-sociali raggiunti per i lavoratori.

La più ampia ondata socialdemocratica che abbia mai attraversato l’America

A partire da questo accordo, la storia sociale americana vede l’emergere di una nuova – e fin lì sconosciuta – figura: quella dell’affluent worker (l’operaio benestante).

La scelta strategica del sindacato, quindi, fu quella di basare la sua azione verso una strategia tesa prevalentemente al miglioramento retributivo, senza mettere più in discussione il potere diretto dell’azienda.

Legittimo discutere, in alcuni suoi aspetti, l’approccio del sindacato americano, ma è difficile disconoscerne i risultati, che nei fatti portarono a un vero e proprio processo di mutamento sociale complessivo, che ha rappresentato la più ampia «ondata socialdemocratica che abbia attraversato l’America».

 

 

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