Trattati di Roma. Quando si cominciò a costruire il sogno europeo

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25.03.2023

“Quale sia il male profondo che mina la società europea – scriveva Altiero Spinelli – è evidentissimo ormai per tutti: è la guerra totale moderna, preparata e condotta mediante l’impiego di tutte le energie sociali esistenti nei singoli paesi. Quando divampa, distrugge uomini e ricchezze; quando cova sotto le ceneri, opprime come un incubo logorante”.

Ogni volta che ci approcciamo a discutere di questioni legate al progetto di un’Europa unita, dovremmo sempre partire dal ricordo di due devastanti guerre mondiali, che hanno lasciato sul campo milioni di morti, distruzioni inenarrabili e crimini da far accapponare la pelle per la loro spietatezza. 

Nella sua ancora evidente imperfezione, l’Unione Europea rappresenta prima di tutto il più alto e importante tentativo di garantire al nostro continente la pace nella democrazia: condizione imprescindibile per ogni tipo di sviluppo economico-sociale.

Il “sogno necessario” dell’unità nasce in una piccola isola del Tirreno, non lontana dalle coste del Lazio. Quella Ventotene che, durante il fascismo, si trasformò da luogo di pescatori a prigione per dissidenti del regime. Tra loro c’erano Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, a cui si deve la stesura di un testo – conosciuto come il Manifesto di Ventotene – che ha segnato in maniera indelebile il cammino che ci ha portato all’Unione Europea così come la conosciamo e viviamo oggi.

Alla costruzione della casa comune europea si è proceduto per tappe evolutive. Tra esse di certo rivestono un ruolo fondamentale i Trattati di Roma, firmati nella nostra capitale il 25 marzo del 1957. A buona ragione considerati come l’atto di nascita della grande famiglia europea, furono firmati dai rappresentati di sei Paesi: Italia, Francia, Germania Ovest, Olanda, Belgio e Lussemburgo. 

Con i Trattati di Roma si costituirono due comunità: la Comunità Economica Europea (CEE) e la Comunità Europea dell’Energia Atomica (CEEA o EURATOM). Queste si andavano ad aggiungere alla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), che era stata invece istituita nel 1951. 

Per entrambe le nuove Comunità, le decisioni venivano prese dal Consiglio su proposta della Commissione. L’Assemblea parlamentare doveva essere consultata e dare il suo parere al Consiglio. Era l’alba delle prime istituzioni comuni in un momento in cui – così come affermato solennemente nel Preambolo del Trattato CEE – si era “determinati a porre le fondamenta di un’unione sempre più stretta fra popoli europei”.

L’EURATOM è un’organizzazione nata allo scopo di coordinare i programmi di ricerca degli Stati membri per l’uso pacifico dell’energia nucleare, il cui potere esecutivo è oggi affidato alla Commissione europea, pur rimanendo un’organizzazione a sé stante. 

Con il Trattato CEE, invece, si dava vita al Mercato Comune tra gli Stati aderenti e al cui interno sarebbe stata garantita la libera circolazione di merci, persone, servizi, capitali.

Quando fu creato il Mercato unico, si osservò come le norme che lo istituivano avessero una certa “frigidità sociale”, a fronte di un sistema di politiche sociali nazionali che in tutta l’Europa occidentale erano diventate il pilastro della rifondazione dello stato nazionale. 

La “costituzione economica” originaria delle Comunità europee era all’epoca espressione di un diverso assetto politico-economico, così come uscito dal secondo Dopoguerra. Un modello di embedded liberalism, che combinava il libero mercato con la costruzione nei singoli Stati dei propri sistemi di welfare, in cui un ruolo fondamentale assumevano le politiche keynesiane di piena occupazione, oltre che gli assetti di politica economica internazionale, basati sugli accordi di Bretton Woods.

Se dopo la Seconda guerra mondiale le costituzioni europee accolgono tutte il modello dello Stato sociale, ciò non vuol dire che l’inizio della costruzione della casa comune europea sia in contraddizione con questo modello di welfare. Anzi, come è stato giustamente sottolineato “la costruzione di un forte mercato transnazionale europeo avrebbe aperto e integrato (secondo le intenzioni dei padri fondatori ndr) le economie dei paesi membri, senza creare alcuna minaccia alle «sovranità sociali» nazionali, che avrebbero anzi potuto contare sui benefici effetti dell’armonizzazione spontanea e progressiva dei sistemi sociali”.

Ma il sistema dell’embendded liberalism, con la possibilità di applicare “Keynes in patria e Smith all’estero”, è crollato tra crisi, cambiamenti epocali come la globalizzazione e anche per volontà politiche. 

Abbiamo potuto constatare, che quella sperata “armonizzazione spontanea e progressiva” dei diritti sociali non si è avverata a livello europeo. Anzi, è lo stesso sistema di welfare che è andato in crisi, anche – ma non solo – per l’avanzata delle politiche neoliberiste.

All’interno della giusta volontà di rafforzamento delle istituzioni dell’Unione europea, rimane aperto il problema della costruzione comunitaria di un modello sociale europeo. 

Dai Trattati di Roma tanto è cambiato. Pur se il diritto europeo ha privilegiato politiche o azioni volte a superare discriminazioni di status rispetto a manovre redistributive, nel tempo la situazione, anche se faticosamente, ha cominciato a mutare, giungendo per tappe fino alla proclamazione del Pilastro sociale europeo. Un provvedimento voluto dal Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione nel 2017 in occasione del vertice di Göteborg. Il pilastro stabilisce 20 principi fondamentali che dovranno guidarci verso un’Europa sociale forte, equa, inclusiva e ricca di opportunità nel XXI secolo. Un’altra tappa, non il traguardo finale.

La UIL ha salutato con entusiasmo i Patti di Roma; la sua è stata una scelta incondizionata per l’integrazione europea. Con un impegno concreto che si manifestò già ai tempi della CECA, e quindi ben prima della costituzione della CEE. Nel terzo congresso che si tenne a Firenze nel 1958, quindi poco dopo l’entrata in vigore dei Trattati, fu ampiamente dibattuto il tema dell’integrazione europea. Nella mozione congressuale si affermava che “il Mercato comune potrà assolvere tutti i suoi compiti solo se sarà rapidamente allargato in una unione economica e monetaria sotto la direzione di una Comunità politica federale”. Quel federalismo che era la speranza contenuta nel Manifesto di Ventotene e senza mai rinunciare agli ideali di emancipazione e inclusione sociale. 

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