Il 20 maggio 1970 viene approvato lo Statuto dei lavoratori: la Costituzione entra in fabbrica
20.05.2023
Avola, 2 dicembre del 1968. I braccianti agricoli decisero d’intraprendere una grande mobilitazione sindacale. L’obiettivo era ottenere un aumento del 10 per cento del salario, nonché la parità di trattamento salariale tra addetti a uno stesso lavoro in due zone diverse della stessa provincia. Ma la situazione degenera e le forze dell’ordine sparano sulla folla, uccidendo due manifestanti.
Il 4 gennaio successivo, ad Avola arriva l’allora ministro del lavoro: il socialista Giacomo Brodolini. Il quale, proprio nella cittadina siciliana, dichiara l’impegno del governo di centro-sinistra a varare lo Statuto dei lavoratori. Insieme a lui c’è anche un professore del diritto del lavoro, anch’egli socialista: Gino Giugni, che dello Statuto sarà il vero estensore, nonché colui a cui si deve la rifondazione del diritto del lavoro e la costruzione della struttura delle relazioni industriali nel nostro paese.
Legge 300: tutelare la parte più debole dei rapporti di lavoro
Il 20 maggio del 1970, fu approvata la legge 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme di collocamento), con il voto a favore di un’ampia maggioranza parlamentare di centro-sinistra – compreso i liberali – mentre il PCI si astenne. Una normativa che voleva proteggere la parte più debole del rapporto di lavoro, ma mai in un’ottica di rottura del sistema o in una logica anti-imprenditoriale.
Espressione del riformismo socialista, con lo Statuto – come fu giustamente affermato – la Costituzione entrava finalmente in fabbrica. La nuova legge sarà fondamentale per dare impulso all’organizzazione del sindacato nei luoghi di lavoro e alla contrattazione aziendale, favorendo il rafforzamento dei legami organici con le strutture sindacali territoriali, di categorie e confederali.
Con la legge 300 finisce, inoltre, la lunga era delle Commissioni interne, iniziata nel 1906, con l’istituzione delle Rappresentanze Sindacali Aziendali (RSA). Il Sindacato vedeva accresciuta la sua possibilità di essere un contro-potere rispetto al potere del datore.
Statuto dei lavoratori: una rinnovata unità sindacale
Lo Statuto si inserisce storicamente in un processo legislativo che in Italia, tra il 1968 e il 1973, vide il varo di una serie di riforme legislative sia sul versante istituzionale che sociale, tra cui: l’istituzione delle Regioni, la legge che introduceva l’esercizio del referendum abrogativo, la revisione del sistema pensionistico e l’introduzione del divorzio nel 1970.
Ovviamente, una ritrovata unità sindacale, a cui si deve la grande stagione di lotte e contrattazione culminate nell’autunno caldo, ebbe in questa vicenda un ruolo fondamentale. Di questa fase lo Statuto rimane l’approdo più avanzato e offrì un quadro giuridico ampio, che favorì la sindacalizzazione del grande movimento operaio emerso 1969.
Durissima la reazione della Confindustria al varo della legge, tanto che arrivò ad accusare il Ministro (Donat Cattin, perché Brodolini era morto prima di vedere approvata la “sua” legge) di aver violato la libertà sindacale delle imprese, perché si era schierato apertamente con i lavoratori e le loro rappresentanze.
Il peso sociale della classe operaia
Nei fatti, lo stesso Gino Giugni riaffermò come “i sindacati furono agevolati nelle proposte concernenti il riconoscimento dell’organizzazione sindacale nell’azienda e i datori di lavoro furono posti in condizioni di difficile difesa di fronte a una dichiarata intenzione del governo di procedere in questa direzione per mezzo dello strumento legislativo. Vi fu perciò una diretta interazione fra l’elaborazione dello Statuto dei lavoratori e l’azione sindacale”.
Alla fine degli anni Sessanta, era cambiato il peso sociale della classe operaia nel mondo del lavoro, concentrata in maniera massiva nei maggiori stabilimenti industriali, e si assisteva ad una forte esplosione dello spontaneismo sindacale. “Un tuono a sinistra”, aveva esclamato il giurista e socialista Federico Mancini. Un tuono e uno spontaneismo che non rimasero inascoltati dal sindacato, “che anzi seppe farne tesoro, inglobando il movimento e le sue istanze, condividendone tensioni e aspirazioni, sino al punto da fondare su di esso una rinnovata legittimazione”. Riuscendo – quindi – a istituzionalizzare la contestazione operaia: non a caso lo Statuto è considerato anche da Gino Giugni, “il frutto di una felice congiunzione tra la cultura giuridica e il movimento di massa”.
In sintesi, un provvedimento del socialismo riformista, perché basato sul principio della law in context e fuori da ogni approccio dogmatico; ma sorretto dall’ideale di garantire la parte più debole.
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