LETTERA APERTA A UN OPERAIO ISCRITTO AL SINDACATO (GIUGNO 1936) di Simone Weil
19.02.2024
Compagno, tu sei uno dei quattro milioni che si sono iscritti alla nostra organizzazione sindacale. Il mese di giugno 1936 è una data nella tua vita. Ti ricordi com’era prima? È già lontano. Fa male ricordarsene.
Ma non bisogna dimenticare. Ti ricordi? Non si aveva che un diritto: il diritto di tacere. Talvolta, mentre si era al lavoro, sulla propria macchina, il disgusto, lo sfinimento, la rivolta, gonfiavano il cuore; a un metro da te un compagno subiva gli stessi dolori, provava lo stesso rancore, la stessa amarezza; ma non osava scambiare le parole che avrebbero potuto dare sollievo, perché si aveva paura.
Ti ricordi bene, ora, come si aveva paura, come si aveva vergogna, come si soffriva? Ve ne erano che non osavano confessare i loro salari, tanto avevano vergogna di guadagnare così poco. Quelli che, troppo deboli o troppo vecchi, non potevano seguire il ritmo del lavoro, e non osavano confessarlo. Ti ricordi come si era ossessionati dalla cadenza del lavoro?
Non si faceva mai abbastanza; bisognava essere sempre tesi per fare ancora qualche pezzo in più, guadagnare ancora qualche soldo in più.
Quando, sforzandosi, sfinendosi, si era arrivati ad andare più in fretta, il cronometro fissava obiettivi più alti. Allora ci si sforzava ancora, si cercava di superare i compagni, ci si ingelosiva, si schiattava sempre di più.
Quelle uscite, la sera, te le ricordi? I giorni in cui si era avuto un “lavoro pesante”. Si usciva, lo sguardo spento, vuoto, smorto. Si usavano le ultime forze per precipitarsi nella metropolitana, per cercare con affanno se vi restava un posto a sedere. Se ne restavano, si sonnecchiava sul sedile.
Se non ve ne restavano, ci si sforzava per riuscire a restare in piedi.
Non si avevano più forze per passeggiare, per discutere, per leggere, per giocare con i propri bambini, per vivere. Si era appena in grado di andare a letto. Non si era guadagnato un granché, sfinendosi su di un lavoro pesante; ci si diceva che se questo fosse continuato, la quindicina sarebbe stata poca cosa, che si doveva ancora affrontare privazioni, contare i soldi, rifiutarsi tutte le cose che potevano distendere un po’, fare dimenticare.
Ti ricordi i capi, e come quelli che avevano un carattere brutale potevano permettersi tutte le insolenze? Ti ricordi che non si osava quasi mai rispondere, che si arrivava a trovare quasi naturale di essere trattati come bestiame? Quanti dolori un cuore umano deve sopportare in silenzio prima di arrivare a quel punto, i ricchi non lo capiranno mai.
Quando osavi alzare la voce perché ti veniva imposto un lavoro troppo duro, o troppo mal pagato, o troppe ore supplementari, ti ricordi con quale brutalità ti si diceva: “è questo o la porta”? E molto spesso tu tacevi, incassavi, ti sottomettevi, perché sapevi che era vero, che era questo
o la porta. Tu sapevi bene che niente poteva impedire loro di metterti sulla strada, come si mette in un angolo uno strumento usato. E per quanto ti sottomettessi, spesso ti si gettava comunque sulla strada.
Nessuno diceva niente. Era normale. Non restava che soffrire la fame in silenzio, correre di fabbrica in fabbrica, ad aspettare in piedi, al freddo, sotto la pioggia, davanti alle porte degli uffici di collocamento. Ti ricordi tutto questo? Ti ricordi tutte le piccole umiliazioni che impregnavano
la tua vita, che facevano freddo al cuore, come l’umidità impregna il corpo quando non si ha riscaldamento?
Se le cose sono un poco cambiate, non dimenticare comunque il passato. È in tutti questi ricordi, in tutta questa amarezza, che tu devi attingere la tua forza, il tuo ideale, la tua ragione di vita. I ricchi e i potenti trovano spesso la loro ragione di vita nel loro orgoglio, gli oppressi
devono trovare la loro ragione di vita nelle loro vergogne. La loro sorte è pur sempre la migliore, perché la loro causa è quella della giustizia. Difendendosi, difendono la dignità umana calpestata. Non dimenticare, ricordati ogni giorno che tu hai la tua tessera sindacale in tasca perché in fabbrica non eri trattato come deve esserlo un uomo, e tu ne hai avuto abbastanza.
Ricordati soprattutto, durante questi anni di durissima sofferenza, di cosa soffrivi di più. Forse non te ne rendevi ben conto, ma se rifletti un momento, sentirai che è vero: soffrivi soprattutto perché, quando ti infliggevano un’umiliazione, un’ingiustizia, eri solo, disarmato, non c’era
nessuno a difenderti. Quando un capo ti rimproverava o ti angosciava ingiustamente, quando ti veniva dato un lavoro che superava le tue forze, quando ti si imponeva un ritmo impossibile da seguire, quando ti si pagava miseramente, quando ti mettevano in mezzo a una strada, quando rifiutavano di assumerti perché non avevi i documenti che servivano o perché avevi più di quaranta anni, quando non ti davano l’indennità di disoccupazione, non potevi neanche lamentarti. Non interessava a nessuno, tutti trovavano ciò del tutto naturale. I tuoi compagni non osavano sostenerti, avevano paura di compromettersi se avessero protestato. Quando ti hanno mandato via dal lavoro, il tuo migliore amico era in qualche modo infastidito di essere visto con te davanti alla porta della fabbrica. I compagni tacevano, ti compiangevano appena, erano troppo assorbiti dalle loro proprie preoccupazioni e dalle loro sofferenze.
Come ci si sentiva soli! Ti ricordi? Tanto soli da avere freddo al cuore. Solo, disarmato, senza aiuto, abbandonato. Alla mercé dei capi, dei padroni, delle persone ricche e potenti che potevano permettersi tutto. Senza diritti, mentre loro avevano tutti i diritti. L’opinione pubblica era indifferente. Si trovava naturale che un padrone fosse il capo assoluto nella sua fabbrica. Padrone delle macchine di acciaio che non soffrono, padrone anche delle macchine di carne che soffrono, ma che dovevano tacere le loro sofferenze sotto pena di soffrire ancora di più. Tu eri una
di queste macchine di carne. Tu constatavi tutti i giorni che solo quelli che avevano denaro in tasca potevano, nella società capitalista, essere considerati uomini, reclamare dei diritti. Si sarebbe riso se tu avessi domandato di essere trattato con riguardo. Anche tra compagni ci si trattava spesso così duramente, così brutalmente come si era trattati dai capi. Cittadino di una grande città, operaio di una grande fabbrica, tu eri così solo, così impotente, così poco sostenuto, come un uomo in un deserto abbandonato alle forze della natura. La società era così indifferente verso gli uomini senza denaro come il vento, la sabbia, il sole sono indifferenti. Tu eri piuttosto una cosa che un uomo nella vita sociale. E tu arrivavi, qualche volta, quando era troppo dura, a dimenticare tu stesso di essere un uomo.
È questo che è cambiato da giugno. Non si è soppressa la miseria, né l’ingiustizia. Ma non sei più solo. Non puoi fare rispettare sempre i tuoi diritti, ma vi è una grande organizzazione che li riconosce, che li proclama, che sa alzare la voce e che si fa sentire. Da giugno, non vi è un solo francese che ignori che gli operai non sono soddisfatti, che si sentono oppressi, che non accettano la loro sorte. Taluni ti danno torto, altri ti danno ragione, ma tutti si preoccupano della tua sorte, pensano a te, temono o si augurano la tua rivolta. Un’ingiustizia commessa nei tuoi confronti può, in alcune circostanze, sconvolgere la vita sociale.
Tu hai acquisito un’importanza. Ma non dimenticare da dove ti viene questa importanza. Anche se, nella tua fabbrica, il sindacato si è imposto, anche se tu ora puoi permetterti molte cose, non immaginarti che sia successo per caso. Riprendi la legittima fierezza cui ha diritto ogni uomo, ma non trarre dai tuoi nuovi diritti alcun orgoglio. La tua forza non risiede in te stesso.
Se la grande organizzazione sindacale che ti protegge venisse meno, ricominceresti a subire le stesse umiliazioni di prima, saresti costretto alla stessa sottomissione, allo stesso silenzio, arriveresti di nuovo a piegarti sempre, a sopportare tutto, a non osare mai alzare la voce. Se cominci a essere trattato come un uomo, lo devi al sindacato. In avvenire, non meriterai di essere trattato come un uomo se non saprai essere un buon iscritto al sindacato.
Essere un buon iscritto al sindacato, cosa significa questo? È molto di più, forse, di quello che tu immagini. Prendere la tessera, pagare le quote, è ancora niente. Eseguire fedelmente le decisioni del sindacato, lottare quando vi è lotta, soffrire quando occorre, non è ancora abbastanza.
Non credere che il sindacato sia semplicemente un’associazione di interessi. I sindacati patronali sono delle associazioni di interessi; i sindacati operai sono un’altra cosa. Il sindacalismo è un ideale a cui bisogna pensare ogni giorno, sul quale bisogna sempre avere gli occhi fissi.
Essere sindacalista è un modo di vivere, questo vuol dire conformarsi in tutto quello che si fa all’ideale sindacalista. L’operaio sindacalista deve comportarsi durante tutti i minuti che passa in fabbrica in modo diverso dall’operaio non iscritto al sindacato. Nel tempo in cui tu non avevi nessun diritto, potevi riconoscerti nessun dovere. Ora tu sei qualcuno, possiedi una forza, hai ricevuto dei vantaggi, ma in cambio tu hai acquisito delle responsabilità. Queste responsabilità, niente nella tua vita di miseria ti ha preparato a fronteggiarle. Tu devi ora impegnarti a renderti capace di assumerle; senza ciò i vantaggi attualmente acquisiti
svaniranno un bel giorno come un sogno. Non si conservano i propri diritti se non si è capaci di esercitarli come si deve.
(Traduzione di Giuseppina Campo, per l’Istituto Studi Sindacali UIL “Italo Viglianesi”)
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