RIDERS: PER L’UE SI TRATTA DI LAVORO DIPENDENTE
07.12.2021
di Cesare Damiano
È l’Unione Europea a mettere un punto sulla posizione lavorativa dei riders: si tratta di lavoro dipendente.
Nella legislazione dell’Unione Europea si realizza una “rivoluzione” del diritto sancita dal Pacchetto Lavoro licenziato dalla Commissione guidata da Nicolas Schmit – il Commissario per il Lavoro e i Diritti Sociali.
Vale la pena di soffermarsi su due elementi importanti che si realizzano nel pacchetto; uno di merito e uno politico.
Nel merito, il Pacchetto non limita la definizione di lavoro subordinato ai soli rider ma a tutti i lavoratori delle piattaforme digitali. Perciò, è l’intera Gig Economy a venir sottoposta a una nuova disciplina – naturalmente nel territorio dell’Unione stessa.
Come subordinati, i lavoratori delle piattaforme dovranno essere assunti e le imprese non potranno più farsi schermo di una presunta attività autonoma e indipendente senza tutele.
L’Ue vara dunque una direttiva alla quale gli Stati membri si dovranno uniformare. Che quello dei rider fosse lavoro subordinato era già stato stabilito in diversi Stati dell’Unione in base all’azione legale di lavoratori e sindacati nei tribunali di Italia, Francia, Spagna Germania. Queste soluzioni giudiziarie hanno fatto da base alla nuova legislazione che estende il riconoscimento di lavoro subordinato all’intero territorio dell’Unione.
Quell’Unione, nata come Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio con il Trattato di Parigi del 1951, progredita nella Comunità Economica Europea con il Trattato di Roma del ’57 e, finalmente, divenuta tale attraverso il Trattato di Maastricht del 1992 e il Trattato di Lisbona del 2007 che ne ha sancito la struttura attuale, è un luogo del diritto e della politica indispensabile nel mondo globalizzato.
Essa ci ha permesso di reagire efficacemente alla crisi pandemica, di costruire strategie economiche e industriali comuni che ci danno la chance di acquisire competitività nei confronti dei giganti economici del mondo. Ma anche di diffondere nei Paesi dell’Unione un diritto comune del lavoro con il quale combattere gli squilibri – come il dumping salariale – sul quale Paesi non fondatori dell’Unione stessa hanno lucrato a spese dei lavoratori e degli altri Stati membri. È un percorso sì complesso. Ma che vale la pena di perseguire.
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