Recensione al libro di Franco Archibugi, Il Privato collettivo. Un nuovo socialismo che sta cambiando il paese
30.04.2023
In anni addietro, era considerata una cosa normale, o fors’anche naturale, che la vita accademica si intersecasse con quella politica. Erano in tanti a mettere al servizio di un’ideale un corpo di conoscenza specifico, tentando di far trasmigrare gli studi fatti sui libri nel contesto sociale, al fine migliorarlo o addirittura di trasformarlo. Partiti e sindacati rappresentavano i luoghi naturali di elaborazione e “messa a terra” di nuove teorie, con cui si voleva costruire e plasmare un’Italia che, dopo il secondo conflitto mondiale, si avviava velocemente a diventare uno dei paesi più industrializzati del mondo.
Franco Archibugi è sicuramente uno di quegli accademici che ha speso gran parte della sua vita nell’impegno politico, legando il suo nome a quella che è ricordata come la stagione – o forse sarebbe meglio dire il tentativo – della programmazione: un intervento di carattere politico-economico con l’obiettivo di coordinare le attività economiche, razionalizzando e superando i tradizionali squilibri della società italiana.
Fu il mondo socialista, di cui faceva parte lo stesso Archibugi, a tentare con più decisione e profondità di studi questa strada. Come sottolineava Antonio Giolitti, nella prospettiva socialista, la programmazione economica assumeva “il suo pieno significato al fine della costruzione del socialismo nella democrazia […]. Con la programmazione il potere di decisione nelle grandi scelte di politica economica viene esercitato dalle istituzioni democratiche responsabili davanti alla collettività, e l’intervento pubblico e l’iniziativa privata vengono coordinati e indirizzati in funzione di obiettivi fissati da quelle decisioni”.
E di programmazione e socialismo parla Franco Archibugi nel libro uscito postumo rispetto la sua scomparsa, avvenuta il 23 novembre del 2020. Un testo non solo in grado di restituirci la passione e le idee che per una vita hanno animato l’Autore, ma che ci dà anche la possibilità di riflettere su questioni che col tempo sembrano rientrate nel presente della politica, dopo che – per oltre un quarantennio – parevano destinate a rimanere confinate nei ricordi di stagioni passate.
Il libro è una raccolta di saggi scritti apparentemente slegati, ma nei fatti uniti da un disegno che seppur in prima battuta potrebbe risultare di difficile lettura nella sua organicità, di fondo poggia su un ideale che lega tutte le pagine del testo: il socialismo democratico. Ovvero, l’idea di non smettere di pensare alla costruzione di una società più giusta e inclusiva, senza ripetere, però, quegli errori che – insieme alle diverse e irripetibili circostanze storiche degli anni Sessanta e Settanta – hanno creato le condizioni per il fallimento della programmazione esplicitata nel “Progetto ’80”, presentato dal ministro Antonio Giolitti nel 1971.
Quella di Archibugi e di tutto il gruppo socialista che vi lavorò, era l’idea di un riformismo necessario a correggere gli squilibri del sistema, con la convinzione che nessuna realizzazione socialista potesse essere disgiunta dal valore della democrazia, vivificata nel più alto numero possibile di partecipi alle scelte collettive. Un socialismo “come perfezionamento della società democratica e liberale sviluppatasi con il capitalismo e non come suo radicale capovolgimento”.
L’A. rivendica l’utilità di una pianificazione che, lungi dall’essere uno strumento tecnocratico di potere centrale “contro la libertà di scelta degli individui e dei gruppi”, deve invece essere considerata come elemento essenziale “per costituire la linea di avanzamento delle gestioni pubbliche, dalla scala delle singole agenzie pubbliche a quella di coordinamento fra esse”. Tenendo però conto che nessun progetto o programma può essere considerato avulso da eventuali limiti finanziari o da verifiche rispetto alla sua efficienza. “Le prestazioni – scrive Archibugi – devono essere analizzate, definite e giustificate in un chiaro sistema di obiettivi”.
In tempi dove si discute di cambi di paradigma e di programmi che lo accompagnino – attraverso una progettualità coordinata e verifiche continue sulla reale realizzazione al fine di procedere all’erogazione dei fondi del PNRR – i discorsi di Archibugi assumono di certo un connotato effettivo di attualità.
Come attuale appare la sua analisi di “un settore for profit che sta segnando il passo, almeno per quanto attiene all’occupazione, mentre si sta manifestando sempre più evidente la crescita del settore no profit. La crescita del terzo settore, il settore del ‘fai-da-te’ o dello scambio non mercantile”. Un ambito oggi del tutto evidente e che segue le trasformazioni economiche e sociali che stanno attraversando la nostra società. Il settore che Archibugi definisce del “privato-collettivo”, che ancora non sappiamo se in grado di segnare l’avvento di un nuovo sistema – “quello che taluni hanno chiamato del socialismo umanista, altri del socialismo liberale” – ma che ora lo Stato riconosce con la legge delega 106/2016.
Il Terzo settore viene legalmente definito “come il complesso degli enti privati costituiti con finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale che, senza scopo di lucro, promuovono e realizzano attività d’interesse generale”. Prendono totalmente forma le riflessioni di Archibugi svolte anni orsono rispetto a un ambito che solo da pochi anni ha regole e confini giuridici e istituzionali precisi, con una fisionomia consolidata.
Precognizioni, quelle dell’Autore, in grado di anticipare i tempi; frutto di studio e passione politica di chi ha dedicato la sua intera esistenza alla costruzione di una società più giusta.
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