Rapporto “Journey to extremism in Africa”. Viaggio nella violenza estremista nell’Africa subsahariana 

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13.03.2023

L’Africa subsahariana è in questo momento l’epicentro delle peggiori violenze legate all’estremismo. Stiamo parlando di una zona del continente che presenta delle situazioni economico-sociali davvero preoccupanti. 

Solo per citare qualche dato, è presente un analfabetismo pari al 40% della popolazione (Unesco). Circa un terzo della popolazione non ha ancora accesso a una fonte d’acqua potabile sicura (Nazioni Unite, The Millennium development goals report 2014). Sempre l’Onu dichiara che circa il 21% dei bambini nell’Africa subsahariana è sottopeso e permane una profonda disparità di genere, con un gender gap tale da rendere difficile, se non impossibile, la partecipazione politica per le donne, l’accesso a strutture medico-sanitarie, all’istruzione e all’inserimento nel mondo lavorativo.

È recentemente stato pubblicato il nuovo rapporto dell’Organizzazione internazionale per l’attuazione del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP), dal titolo Journey to extremism in Africa (Viaggi nell’estremismo in Africa). Nuovo, perché la prima ricerca sulle cause e sui possibili rimedi alla violenza estremistica risale al 2017. Essa prende in considerazione i seguenti paesi: Burkina Faso, Camerun, Ciad, Mali, Niger, Nigeria, Somalia e Sudan. 

Lo studio si basa su testimonianze personali sia di ex membri di organizzazioni estremiste e sia di individui che vivono nello stesso ambiente socio/culturale (gruppo di riferimento). 

In premessa, gli autori della ricerca sottolineano subito che “il concentrarsi solo su misure di sicurezza” per la repressione del fenomeno, non fa che peggiorare situazioni già precarie. Senza contare che non di rado anche chi esercita pubblici poteri non rispetta elementari diritti individuali.

Un dato rilevante riguarda l’aumento dell’esposizione al reclutamento in gruppi estremistici di chi vive più isolato, in contesti dove gli scambi umani sono più rarefatti, persiste una condizione di ancor maggior sottosviluppo e manca anche un pluralismo religioso. 

Chi ha praticato la violenza estremistica, riporta spesso una grossa percezione di infelicità infantile. All’aumentare di un solo punto di questa percezione in senso positivo, le possibilità di reclutamento volontario calano del 10%. Inoltre, più i genitori sono coinvolti positivamente nella vita dei figli, più si allontana la possibilità di diventare un estremista violento.

Ovviamente, come già dimostrato nel 2017, all’aumentare della scolarità si riscontra una diminuzione dell’arruolamento. Infatti, bassi livelli di istruzione sono risultati più diffusi tra le reclute volontarie (59%), rispetto al gruppo di riferimento.

Il fattore religioso non risulta la principale leva per l’arruolamento. Dai dati raccolti emerge che questo vale per il 17% degli intervistati, con una predominanza tra gli uomini rispetto alle donne. 

La spinta principale all’arruolamento viene, invece, dalla speranza di avere un’occupazione (25% dei casi). Tale aspetto riguarda ancora più gli uomini che le donne. Queste ultime risultano più propense all’affiliazione per via dell’influenza della famiglia. 

In generale, tutti gli intervistati mostrano una scarsa fiducia nelle istituzioni governative, comprese quelle deputate alla sicurezza. I valori di sfiducia tra reclute volontarie e gruppo di riferimento non si discosta pressoché di nulla (62% e 61%).

Prevale l’insoddisfazione diffusa verso l’incapacità dei governi di fornire possibilità lavorative.

L’inefficienza o la totale assenza dello stato dà la possibilità ai gruppi estremisti e violenti di insediarsi come fornitori di servizi chiave, come la mediazione di conflitti, la giustizia e la sicurezza.

Si è constatato come la presenza di leader religiosi riconosciuti dalla comunità e in grado di veicolarla positivamente, diminuisca l’impatto del reclutamento, stemperando le narrazioni estremiste.

Tra gli eventi che spesso innescano il passaggio nelle milizie armate, si riscontrano le stesse azioni governative, che non di rado portano anche a uccisioni o arresti di familiari e amici. Molti futuri reclutati compiono il passo non da soli, ma spesso insieme con persone che conoscono (45%), mentre il 15% è spinto dalla famiglia e il 16% lo fa da solo.

Al contrario di quanto comunemente si crede, un maggiore utilizzo di internet è associato a una minore suscettibilità verso l’estremismo violento.

Il rapporto cerca di dare delle possibili linee guida per prevenire il fenomeno, ma fornisce indicazioni anche per incentivare alla dissociazione gli appartenenti ai gruppi. In quest’ultimo caso, l’incentivo maggiore risulta quello di carattere economico. Pur se non mancano coloro che si dissociano per disillusione ideologica o sfiducia verso le azioni del gruppo. 

Le donne si dimostrano meno permeabili a motivazioni di carattere ideologico e un lavoro mirato su di esse potrebbe risultare fondamentale per stemperare la carica massimalista che l’ideologia si porta dietro.

Ovviamente, l’accento viene posto sulla necessità di implementazione di programmi scolastico/educativi insieme a iniziative volte a creare lavoro. Rimane fondamentale il progresso delle istituzioni in senso democratico, pluralista e quindi tollerante verso ogni tipo di diversità.

Se la Comunità internazionale deve fare la sua parte, al fine di creare le condizioni di uno sviluppo sociale progressivo e inclusivo, c’è il problema del ruolo degli stati nazionali. In quelli presi in considerazione dalla ricerca risulta un Democracy Index (Indice di democrazia) piuttosto basso: Burkina Faso 111; Camerun 143; Ciad 163; Mali 119; Niger 125; Nigeria 107; Somalia 165 e Sudan 147. Ciò, ovviamente, rende tutto molto più complesso e difficile. 

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